mercoledì 30 aprile 2008

Tutto e niente



Ci sono dei giorni in cui non c'è molto da dire, però rimane forte la voglia di scrivere, per comunicare, anche solo per riempire lo spazio, anche se so che quello emotivo è a volte più grande della distanza che mi separa dall'Europa.
Ed in verità le cose da dire potrebbero essere infinite, solo la pioggia ed il sole, che da noi risultano quasi banali, qui sono elementi così estranei per le nostre sensibilità, che meriterebbero molte parole.
Le strade disconesse, i marciapiedi che ti obbligano a slalom improbabili, per evitare immondizia o buche, gli autobus che fanno sobbalzi in grado di spaccarti l'osso sacro, i supermercati che sono uguali in tutto il mondo, la Città in pieno sviluppo, gli indios che vivono sospesi tra le loro comunità in mezzo alla foresta o che studiano ingegneria florestale, la cooperazione che segue binari contorti che spesso non capisco, il denaro sopra ogni cosa, i ragazzi che fumano palline di pasta di coca in alberghi del centro, le birre scadenti, la musica neomelodica in un bar all'ora del tramonto ed un vorticare di eventi o semplicemente la routine e la sua noia.
Intanto guardo la palma agitata dal vento, fuori dalla biblioteca dove mi infilo per usare internet, di una delle mille università private, dove le ragazze entrano in gingheri, come fosse giorno di festa.
I contrasti fatti di immagini fugaci attraverso un finestrino, o da una barca. Il polo industriale più grande del nord dell'America Latina e le case di legno dei ribeirinhos, gli abitanti delle rive dei fiumi, mescolanza di portoghesi, indios, africani, che vivono di pesca e di allevamento. I giovani che si stordiscono di canne vagando nella notte, i barboni che sniffano colla o bevono cachaça di pessima qualità, per poi finire sdraiati su dei cartoni laceri su un marciapiede del centro.
La pioggia insistente che scorre insieme agli scariche delle case, lungo i marciapiedi, le barche che affondano perchè stracariche di passeggeri, i litigi senza fine tra clan indigeni urbanizzati, il centro deserto la domenica pomeriggio, la frutta dalle proprietà innumerevoli, la nostalgia delle cose banali, come può esserlo un pezzo di formaggio di capra, la musica melodica di Alceu Valença cantautore di Bahia.
Un tutto fatto di cose piccole e impercettibili, un niente enorme come può esserlo la foresta.

venerdì 25 aprile 2008

Le grand diable


Amazzonia nella mente di tutti richiama sempre alla deforestazione. Forse perchè è la foresta più grande del pianeta, forse perchè è da ormai molti anni sotto i riflettori, a differenza di altre aree boschive (Africa equatoriale e Sud-est asiatico).
Spesso si pensa che quest'immensità venga disboscata per la legna o, come capita di leggere in qualche rivista, dai piccoli agricoltori. Invece l'Amazzonia rischia di sparire per la carne. Solo il 3% della deforestazione è responsabilità dell'industria del legname, mentre il 60 % è colpa dell'allevamento di bovini! La foresta viene bruciata e tagliata per lasciare spazio ai pascoli che forniscono carne, che per l'80% è in gran parte destinata all'Europa (Italia compresa). In pratica, l'Amazzonia sta finendo nei nostri piatti, ce la stiamo letteralmente divorando!
Le nostre stalle non bastano più a sostenere le richieste di un mercato in forte espansione. Dopo la seconda guerra mondiale, il consumo di carne ha subito un'impennata. Quello che un tempo non poteva mai mancare nella tavola dei nobili o dei borghesi, che disdegnavano le verdure come cibo dei poveri (soffrendo tra l'altro della famosa gotta, un disturbo che porta alla paralisi o alla cancrena degli arti), ora è un diritto-dovere delle mensa di tutti. Nel 1961 il fabbisogno mondiale di carne era di 71 milioni di tonnellate, nel 2007 si stima sia arrivato a 284. Nel mondo in via di sviluppo è cresciuto del doppio, ed è raddoppiata in 20 anni. Si prevede che il consumo mondiale di carne raddoppierà nel 2050. Ma basta parlare con i propri genitori o con i propri nonni e constatare che la bistecca giornaliera (ma anche tutte quelle polpette, affettati, ragù, ecc.) 50 anni fa' erano fantascienza. Così ora, il 30% delle terre emerse non ricoperte dai ghiacci è adibito all'allevamento di circa 2 miliardi di bovini. Un'immensa mandria che inquina più di tutto il sistema mondiale dei trasporti (producendo un quinto dell'emissioni serra della Terra). Uno studio del 2007 fatto dall'Istituto nazionale di scienze dell'allevamento del Giappone ha stimato che per produrre un taglio di carne di manzo da un chilo, si consuma tanta energia quanto una vettura media europea che percorre 250 chilometri o come una lampadina di 100 watt accesa per 20 giorni di fila. Ed in più, sempre per questo chilo di carne, servono 9 chili di cereali, che verranno sottratti all'alimemtazione umana, per essere dati ad animali come le vacche il cui stomaco non è fatto per digerirli, ma che in compenso le farà diventare più grasse e più in svelta. Eventuali e probabili danni alla salute saranno poi curati a base di antibiotici, che finiranno nel nostro stomaco.
E tutto questo per non farci mai mancare la carne, il cui consumo giornaliero, è oltretutto dannoso per la salute, come hanno evidenziato varie ricerche scientifiche, la saggezza popolare (che i potenti snobbavano, per poi trovarsi grassi e paralitici) e le immagini della popolazione statunitense!
Ma poichè tutto è connesso, va anche detto che gli allevamenti di bestiame sono una delle cause della cacciata degli indios dalla loro terre d'origine, costretti a spostarsi altrove o in città, per fare posto ai latifondisti desiderosi di far pascolare le loro vacche.
La soluzione a tutto ciò non sarebbe complicata, anche se costringerebbe a qualche sacrificio, cosa che l'uomo post-moderno fa solo quando è minacciato di morte dal medico, ossia rinunciare alla carne (in tutte le sue forme e non come spesso mi capita di sentirmi chiedere, quando affermo di non mangiare carne: "con il prosciutto va bene?") qualche volta a settimana. In fondo, non esorto nessuno ad essere vegetariano. A differenza di molti carnivori che ho incontrato nella mia vita, che sono quasi fanatici della bistecca e che pensano che se non la mangi almeno 3 volte alla settima rischi di svenire e che mi trattano quasi come un demente, ho capito che il rispetto della abitudini altrui è importantissima, anche quando la si ritiene molto dannosa e che non si cambiano le idee di chi si ha vicino trattandolo come un ignorante.

(fonti:La Repubblica, 28 gennaio, 2008; www.wunimgfoundation.com/italiano/lifestyle/previsioni_del_tempo.htm)

venerdì 18 aprile 2008

Soldi


Dinheiro, plata, argent, money, soldi...insomma il vero motore del mondo, il fine tanto cercato dai filosofi antichi, il mezzo tanto desiderato per ottenere...altro denaro.
Un real, simbolo R$, vale circa 2,6 euro ed è la moneta brasiliana. Molti credono che il Brasile sia un paese povero, un tipico stato del Sud America dove un italiano può arrivare e comprarsi quasi tutto con un pugno di euro. Sono qui per smentirvi. Oltre al cocco gelato -un cocco tagliato sul momento, bello freddo, da cui aspirare il latte con una cannuccia -, o il costo delle bevande nei bar frequentati dai giovani medio borghesi, l'impatto con l'economia locale non è delle più felici, specie se si arriva armati dell'idea di poter prendere il taxi per percorrere mezza città con pochi spiccioli o di affittare una casa con piscina per lo stesso prezzo con cui si paga un posto in singola a Bologna o Venezia!
La benzina, il liquido biondo che fa impazzire il mondo, ha un prezzo di circa 1 euro, eppure il Brasile, grazie alla sua compagnia petrolifera di bandiera, la Petrobras, è quasi autosufficiente dal punto di vista energetico. Le macchine qui a Manaus non mancano, e non sono nemmeno vecchi catorci, tipo quelli che i paesi africani comprano di seconda o terza mano dall'Europa occidentale. Se da noi ci lamentiamo di quell'obrobrio ambientale che sono i SUV (Sport Utlity Vehicle), quelle specie di jipponi da città che inquinano per due utilitarie, qui è comune vedere dei pick-up con i quali affrontare la guerra nel Viet Nam in serenità, che non oso immaginare quanto carburante possano consumare.
E poi le televisioni al plasma, i pc, gli affitti, internet, l'olio d'oliva, che il più scarso, che non sa di oliva, costa come uno di alta qualità da noi, i vestiti, insomma tutta la carrellata di merci che riempiono negozi e case. Tutte carissime, che molto spesso qui si comprano parceladas, ossia a rate, che poi magari non si riescono ad estinguere ed allora bisogna riportare tutto indietro.
Mentre il salario minimo, fissato per legge è di 380 R$ (146 euro circa), mentre dietro l'ipermercato vicino a casa, dove si può trovare il gorgonzola a 40 euro al chilo o lo champagne da 50 a bottiglia, ci sono baracche di legno affacciate su un canale dove sono state riversati così tanti veleni che hanno impregnato il suolo fino a 9 metri di profondità.
America, liberalismo, ricchezza e povertà estrema, terra di conquista e di avidità. Non appena racconto cosa sto facendo qui: sviluppare alcuni prodotti che crescono nell'area indigena Sateré-Mawé, per incamminarli nel circuito equosolidale, molti si illuminano, tutti vogliono esportare per guadagnare. Va loro a spiegare che il denaro ricavato dalla vendita di questi prodotti è anche destinato a progetti sociali, come l'educazione, la raccolta differenziata di rifiuti - che nemmeno in terra indigena, nel mezzo della foresta, mancano - o il recupero delle medicine tradizionali. Qua, più che da noi, nostante viva nel Nordest Italia, il denaro è motivo per alzarsi al mattino, per sorridere e stringere mani.
In fondo qui è la frontiera del Brasile, un'enorme estensione di terra, libera, vuota -se si escludono milioni di alberi, piante, animali, fiumi, indigeni - piena di acqua, gas, materia infinita da sfruttare, da spedire via nave o via areo verso la borghesia di Rio o San Paolo, o verso i nostri negozi in Europa.
Penso a casa, alla vecchia Italia, dove racconti che le foreste quasi non ci sono più, dove un tempo, non troppo lontano, se qualcuno diceva che ad inizio '800 si poteva percorrere tutta la costa tirrenica da Ventimiglia (Liguria) a Reggio Calabria sotto l'ombra degli alberi, anche da noi la terra era meno una scatola da impacchettare. Uno dei primi presidenti democratici del Brasile, José Sarney, dopo la dittatura militare che durò dal 1964 al 1982, di fronte alle richieste dall'Europa di preservare a tutti i costi l'Amazzonia -che in gran parte si trova nel territorio brasiliano -, rispose che il Vecchio Mondo era il meno indicato a parlare, dato che aveva costruito le sue fortune proprio sul disboscamento.
Si taglia, si brucia, si gettano sostanze chimiche per far crescere di più o per far vivere di meno, si tratta ogni cosa come fosse totalmente dominabile, si guarda ogni cosa con la lente, solo per vedere dove sta la ricchezza o la parte da distruggere. E tutto per fare soldi, che ne faranno altri e così via, in un circolo vizioso senza fine, magari senza la possibilità di goderseli, perchè non si ha tempo, ed il tempo è denaro da fare, da non perdere. Una droga mortale il cui abuso è premiato con onorificienze e con cariche istituzionali. Manipoli di drogati che guidano il mondo come una macchina a folle corsa, mentre si accaniscono contro chi si droga per cercare un senso o per uscire dal senso dominante.
Sarebbe bello fermarsi un attimo e respirare profondamente, con le tasche vuote, senza debiti e crediti. E vivere di niente o di tutto, come un giardiniere, che un giorno mi disse che fuori da qui, lontani da Manaus, nell'interno, non hai bisogno di soldi: l'acqua c'è in abbondanza, ci sono pesci, ogni tipo di frutta, tanta terra, pioggia e sole. Sarebbe bello.

sabato 12 aprile 2008

Guaranà


"Il problema non è essere in molti su questo pianeta, ma essere molto stupidi."

Dopo delle note intimiste, in cui ho lasciato trasparire il mio animo, è ora di ritornare ad informare i lettori su questo mondo esotico, lettori che tra l'altro invito a lasciare dei commenti, se non altro per correggere le stupidaggini che posso dire o per intavolare un dibattito.
Il titolo di questo articolo non dovrebbe risuonare insolito, penso che alcuni abbiano già avuto modo di provare questo frutto che nell'Amazzonia e proprio dove mi trovo, ha la sua terra d'origine.
"Sateré-mawé éco ga'apypiat waraná mimotypoot sése" in lingua Sateré-Mawé significa: "santuario ecologico e culturale del guaranà del popolo Sateré-Mawé", un territtorio che indica tutta l'attuale area indigena riconosciuta nel 1982 dal governo federale brasiliano. In questa terra che ha circa l'estensione dell'Umbria (più o meno 780 mila ettari quadrati), si trova infatti l'unico banco genetico del guaranà al mondo. In pratica, qui e solo qui si può incontrare il guaranà nativo, tutto quello che cresce nella altre regioni del Brasile è frutto di incroci e manipolazioni dell'uomo.
La leggenda, che è un vero e proprio mito fondatoro di questa popolazione indigena, sostiene che il guaranà non è una semplice pianta che contiene questo o quel principio attivo. La tradizione vede in esso l'origine di un popolo, ma anche di una vera e propria medicina. C’era una volta una donna -racconto grossolanamente in pochi minuti una storia che meriterebbe una notte intera - che aveva due fratelli che non volevano che lei si sposasse. Perché lei guariva con le erbe e loro volevano che si prendesse cura solo di loro. Ma un serpentello le toccò una gamba e lei ne rimase incinta. I fratelli allora la espulsero dal suo stesso giardino, il giardino di Nosoquem. Quando ebbe 5 anni però, al bambino venne voglia di tornare per mangiare le castagne (che noi chiamiamo ‘noci del Brasile’) e gli zii ne approfittarono per farlo a pezzi. La madre, accorsa, raccolse i resti del bambino e gli disse (anche se era già morto): “E va bene, figlio mio. Sono stati i tuoi zii ad ordinare di ammazzarti. Volevano che tu restassi un povero disgraziato, ma non sarà così. Tu sarai la più grande forza della natura, tu farai il bene di tutti gli uomini, tu sarai grande, tu libererai gli uomini da certi mali e li curerai da altri”. Poi seppellì a parte, in due buche, gli occhi. Da un occhio nacque in seguito la pianta del falso guaranà, e dall’altro la pianta del guaranà autentico; dalla tomba in cui seppellì i resti del corpo, sorsero invece, nel giro di alcuni giorni, vari animali; per prima la scimmia caiarara (una scimmia sempre nervosa, agitata, irritabile, angosciata, che cammina in fila indiana e lascia il proprio cibo per andare a rubare quello degli altri membri del branco, antenata dell’uomo bianco). Per ultimo, infine, risorse il bambino: come capostipite di tutti gli indios Sateré-Mawé.
Il guaranà quando si dischiude, in marzo ed in ottobbre, assomiglia proprio ad un occhio. Un occhio che dalla foresta vergine abbraccia tutto il mondo.
Come vuole la leggenda, infatti, il guaranà (chiamato waranà dagli indios), non è fatto per rimanere nel folto della giungla. I Sateré hanno saputo addomesticare questa liana e da tempo remoto la coltivano nei campi in prossimità dei loro villaggi. Da secoli inoltre lo inviano oltre i confini del mondo per loro fisicamente raggiungibile (nel'700 lo esportavano addirittura oltre i confini del territorio brasiliano!).
Molte piante che i Sateré usavano, come quasi tutti gli indios amazzonici, sono state progressivamente ostracizzate o represse dall'autorità pubblica e dalle varie confessioni religiose che qui s'incontrano (i Sateré sono tutti cristiani: cattolici, battisti, avventisti o dell'Assembléia de Deus). L'ayahuasca, una bevanda ottenuta dall'infusione di una liana e di una foglia che meriterebbe un capitolo a parte e che ha delle forti proprietà allucinogene, il paricà, una polvere vegetale, anch'essa psicotropa, che viene soffiata per mezzo di un tubo nelle narici, la marijuana, introdotta in tempi più recenti, sono state tutte via via bandite. Al giorno d'oggi, gli sciamani, che in lingua interetnica si chiamano pajé, per i loro viaggi di cura rituale nel mondo delle ombre, si avvalgono quasi esclusivamente della cachaça (distillato della canna da zucchero) o dell'alcol etilico puro. Stessa sorte lo sta subendo anche l'uso quotidiano di centinaia di piante medicinali, che la nostra cultura basata sul rimedio chimico, che da un sollievo immediato, sta tentando di far scomparire.
Il fatto di essere apprezzato dai Gesuiti, ha salvato il guaranà se non dall'estinzione fisica, da quella culturale e ha permesso che il suo uso continuasse a far parte della tradizione Sateré. Quando un visitatore arriva in un villaggio è infatti usanza offrirgli il çapò, una bevanda a base di guaranà e acqua preparata dalle donne. Seduti sotto una capanna mi è capitato più volte di assistere alla sua preparazione: una donna prende una ciotola di legno con dell'acqua e con una pietra comincia a grattarci dentro un pezzo di bastone di guaranà. La ciotola è offerta ai presenti e deve far preferibilmente due giri, perchè altrimenti i propri figli nasceranno con un solo orecchio. Il sapore di questo caffè della foresta è leggermente amaro e con un piacevole sentore di affumicato. I semi di guaranà, infatti, dopo essere raccolti sono pestati dentro un grande mortaio, con l'aggiunta dell'acqua poi vengono trasformati in una sorta di massa molle che è lavorata per formare bastoni di mezzo chilo o un chilo. L'ultimo passaggio, e quello che ne dà il sapore caratteristico, è l'affumicazione su una struttura sospesa su delle braci di un legno aromatico, alimentate per circa tre mesi. In tal modo, oltre ad avere un sapore differente dalla semplice polvere ottenuta dalla macinazione dei semi tostati che si trova sul mercato, il guaranà può conservarsi per anni, al riparo dalle muffe.
Per la stragrande maggioranza dei brasiliani quanto ho appena descritto è puro esotismo, come per un europeo. Una sera mi è capitato di offrire un seme di guaranà ad un ragazzo con cui ero uscito e non sapeva cosa fosse. Questo succede qui nello stato di Amazonas, negli stati più a sud, dove la popolazione è più globalizzata e di origine europea, probabilmente igorano anche l'esistenza della liana del guaranà.
Infatti, il Brasile intero è un forte consumatore di quelli che qui si chiamano refrigerantes, ossia delle porcherie piene di zuccheri, gas e varie sostanze chimiche simili alle nostre cole. I più venduti sono quelli che contengono l'estratto di guaranà, prodotto in grandi stabilimenti in parte controllati dalla Pepsi. Questo guaranà di pessima qualità è ottenuto a partire da piante clonate, create in laboratorio, che si stanno progressivamente diffondendo anche qui nella terra d'origine e da piantagioni estensive nello stato di Salvador de Bahia. E' un guaranà questo che gode di tutti i difetti dell'agricoltura industrializzata: ricco di residui di diserbanti e fertilizzanti, impoverito geneticamente e trasformato in fretta, così da contenere tenori molto bassi di caffeina (il guaranà dei Sateré ha un tenore caffeinico tra il 4 ed il 5 %, mentre il caffé ne possiede tra l'1 e il 2%) e perdere molte altre piccole sostanze che ne garantiscono la digeribilità e gli effetti positivi sul corpo umano.
Il guaranà legìtimo, come si direbbe qui, è certo un forte stimolante nervoso, ma la sua caffeina è assimilata lentamente, grazie alla presenza delle fibre vegetali, che i processi artigianali non distruggono. Inoltre, questo frutto della foresta può essere usato contro la febbre e la diarrea, e agisce come depurativo e fortificante del sistema cardiaco. Ma qui è risaputo che il suo abuso ha portato più di un europeo o un giovane incosciente all'ospedale.
Come nel caso di altri doni della natura, anche il guaranà è diventato l'ennesimo principio attivo da ingurgitare per rendere di più, sia nel lavoro che nelle feste. Il nervosismo, l'insonnia e la tachicardia che ci chiede in cambio, potrebbero essere visti come una sorta di pena inflittaci dal bambino-guaranà, l'antenato dei Sateré, che ci sta ricordando la nostra superba stupidità, e forse anche la nostra discendenza da quella scimmia perennemente agitata.

mercoledì 9 aprile 2008

Silves


Silves. Isola di circa 3000 persone su un affluente del Rio Amazonas. Barche che scorrono, nuvole e riflessi di un sole potente sulle acque che si muovono. Il vento cerca di scompaginare il quaderno dove scrivo, portando sollievo e frammenti di ricordi.
Un anno di alberghi e pensioni, quest'anno lungo, che va da marzo dell'anno scorso a chissà quando.
Alberghi come sinonimi di movimento, di punti che congiungono i segmenti di questo mio moto di esplorazione. Partendo da Bologna, passando per la Toscana, arrivando in Francia del Nord per poi tornare a Bologna, e Milano, Parigi ed ora l'Amazzonia. Alberghi come contrari della stasi che ha bloccato il mio spirito per troppi anni. Venezia diventa quindi la laguna, la città di acqua ferma che simboleggia il mio agitarsi inquieto. Arenarsi in uno spazio, cercando di bloccare il tempo, come se si potesse collocare tutto al sicuro in bolle di vetro da guardare seduti su un divano, magari in posizione di estremo relax storditi da qualche spezia odorosa ed una bottiglia di nero oblio. E con il tempo bloccarsi per non affrontare le decisioni, le piccole battaglie di ogni giorno, le sconfitte, ma anche i piaceri dei nuovi sensi che si possono costruire con il confronto.
Eslporare nuovi territori è così un modo per conoscere nuovi spazi emotivi del proprio mondo interiore. Il pianeta che ci ospita diventa uno specchio in cui lasciarsi riformare. Perchè non esiste un luogo oggettivo, nemmeno nelle foto. La macchina si lascia modificare dalla luce, dalle angolazioni, ma soprattutto da chi la usa. Così i luoghi che incontriamo. Come sto qui, adesso, dipende da come sono ora, da cosa il mio corpo emana e la mia mente codifica in pensiero. E Silves o l'Amazzonia intera dipendono anh'essi dalle mie emozioni, dal mio desiderio di vivere o di lasciarmi vivere.
Sottili legami, fili leggerissimi tessuti tra il nostro cuore ed il mondo. Decidere di vivere comporta le sue responsabilità, non solo quella di conoscere, ma anche di rispettare. Perchè lasciandosi vivere si può sfilare il mondo come su un rullo scorrevole, come un automa del lunedì mattina, indifferenti. Il rispetto invece esige l'azione, perchè anche i mondi che ci ospitano non si lascino vivere addosso, come degli amanti scaduti, perchè il mondo sia nostro complice e alleato, un amante pieno di fascino ed intrigo, con cui lottare come si fa l'amore, ossia giocando.

mercoledì 2 aprile 2008

Tre mesi



Il tempo inghiotte il presente. Delle volte si fissa un numero su uno schermo o su un pezzo di carta e la cifra diventa un segno di cui non si può fare finta di niente. Come non posso sottrarmi dallo scrivere, dal raccontare, non fosse altro perchè qualcuno vorrà sapere di questo mondo, che a volte è pieno di colori, a volte bianco e nero come la scrittura. E' come sempre non è facile stabilire un punto, gettare un ancora che possa fermare le impressioni. A volte la scrittura chiede una sedentarietà che risulta difficile esaudire. Stare di fronte ad una macchina o ad un pezzo di carta da impressionare, mentre tutto ciò che si vuole afferrare e imprigionare nel foglio deriva dal movimento, fisico o della mente. Eppure il viaggio non si lascia ingabbiare, non riesce a conformarsi alla rigidità delle linee, delle parole. Come descrivere un viaggio di 4-5 ore in macchina lungo una strada a cui lati vive la foresta e che di colpo diventa sconnessa, rossa di ferro, in mezzo ad un bosco dove praticano un taglio sostenibile degli alberi? Come dipingere la notte di domenica, mentre fumavo una sigaretta sul molo di un'isoletta in un affluente del Rio Amazonas, mentre le barche andavano e venivano nel buio ed il vento sembrava attraversarmi? E l'acqua fangosa di un igapò - la parte della foresta che s'innonda durante la piena dei fiumi - e le migliaia di piante che la popolano, con quali parole rinchiuderle qui dentro?
Ed il viaggio è anche nel tempo, nei giorni che cambiano, a volte impercettibilmente, soprattutto qui, dove pare che le stagioni non ci siano, dove gli alberi sono sempre verdi e fa sempre caldo.
Ma quasi tre mesi sono passati e con essi migliaia di stati d'animo, nonostante il mio lavoro che langue, nonostante le poche persone giovani conosciute, in una certa solitudine che non mi dispiace. In fondo, dopo anni, dopo centinaia di comparse e di finzioni, ho anche voglia di vagabondare solo, nelle strade come nei pensieri, fissare il cielo e non chiedermi molto, facendo in modo che una notte scura o il sole già incandescente delle 9 allontanino ogni sciocchezza. Preferisco accontentarmi delle nuovole bianche di un mattino, che di mille discorsi che ruotano attorno a se stessi e non vanno da nessuna parte. Ogni tanto è bene concedersi della pace.