lunedì 19 maggio 2008

Babylon by bus


Autobus, strade appena asfaltate in mezzo allla foresta, che lascia spazio alla savana e poi ad una terra brulla, quasi desertica.
La voglia di uscire dalla Città, da quella che chiamano selva de pedra (la foresta di pietra), la Manaus del traffico, delle industrie, dei mille commerci, della muffa che impregna le stanze e le vesti, il desiderio di combattere l'irrequietezza dell'animo con il senso del viaggio. Anche se di oltre 4000 Km.
Da qui, dal centro della foresta amazzonica il mondo sembra quasi irraggiungibile. Ed in parte è vero. Poche sono le strade che gli umani sono riusciti a costruire e a mantenere, evitando che la foresta se le mangiasse. Tutto si muove con le barche, dalle persone alle merci. Un movimento che deve seguire il corso dei fiumi, che se pur tenta d'imporsi con la forza del motore a scoppio e del diesel, deve rinunciare alla velocità e lasciarsi trasportare dalla corrente. Solo per arrivare a Belém, la capitale dello stato del Parà, che si trova vicino alla foce del Rio delle Amazzoni ci vogliono 4 giorni, e 7 per tornare, perchè si è controcorrente.
Ci sono gli arei è ovvio, ma sono cari. Per poter uscire da qui, per poter vedere, conoscere, annusare e sentire qualcosa di diverso, l'unica via è quello verso il nord, che passa per Boa Vista e da lì verso la frontiera con il Venezuela.
Il viaggio porta con sé nuovi orizzonti, nuove persone ma anche imprevisti e piccole disgrazie, che si legano in modo indissolubile. Così, non appena io e Simona (la ragazza che sta facendo la volontaria per la mia stessa Ong) ammiriamo la frontiera, con in bocca l'idea succulenta di incontrare non solo un nuovo paese, ma anche un'altra lingua - lo spagnolo - e altre culture, sentiamo il peso della burocrazia e del denaro saltarci addosso, per svegliarci, ricordandoci che dietro ogni passo c'è sempre una tassa da pagare. Per uscire dal Brasile dobbiamo passare dalla Polizia Federale per mostrare il passaporto, in quella che crediamo un'operazione di pochi secondi. I secondi diventano minuti, perchè ci siamo dimenticati a Manaus un fogliettino che ci hanno dati in aereo, ancora prima di atterrare a San Paolo, in cui dovevamo barrare delle caselle. Un pezzettino di carta in cui c'impegnavamo a non importare in Brasile piante o medicine particolari, che nessuno ha ovviamente controllato una volta atterrati. Un pezzo di carta che ci è costato 165,55 R$, ossia circa 63 euro, che avremmo pagato in seguito, una volta ritornati dal Venezuela.
E già si comincia bene, con il nervoso che solo la burocrazia ti sa dare, quell sensazione che uno stato te lo stia mettendo in culo, e che quel foglio di carta serva solo a prelevare denaro dagli ignari turisti, che considerandolo una sciocchezza, se lo dimenticano a casa!
Ma le ore di autobus, la foresta che si dirada fino a scomparire in una terra dove affiorano poche piante, persino dei cactus e l'idea di vedere il mare, scacciano guardie e ladri - che spesso sono la stessa cosa - e ridanno vigore al viaggio.
Molte le ore, più o meno 36 da Manaus a Puerto la Cruz, una cittadina che si trova sulla costa, da cui prendiamo un ferry per arrivare all'isola di Margaritta, rinnomata località turistica caraibica.
La visione di palme e acqua cristalline in cui pesci colorati nuotano beati lascia spazio alla più prosaica realtà di queste terre, abusivismo edilizio ed immondizia. Lo scarto del consumo vorace con cui stiamo rimpiendo pancia e testa, lascia dietro di sè resti di ogni tipo, che spesso non ci curiamo nemmeno di rimuovere alla vista, di occultare. Semplici gesti, una mano, un finestrino e la bottiglia di plastica o la lattina scivolano lungo la strada, per finire in mezzo alla polvere e agli arbusti secci, facendo compagnia ad altri loro simili.
Ma non si da tempo alla disperazione di venire a galla. Dal porto andiamo verso Porlamar, il centro dell'isola, in cerca di una sistemazione per la notte, di una doccia dopo due giorni di viaggio.
Con gli zaini in spalla e l'aurea di gringos che sprigioniamo, ci muoviamo con un furgone che funge da autobus e poi a piedi per stradine, in cui cerchiamo scorci di mare. Un ragazzo nero con un carrello ci ferma, ci parla in inglese, perchè non è venezuelano, viene da un'isola di cui non capisco il nome (che cercando su Google, scoprirò essere St.Lucia, vicino a Martinica) e con un anda alticcia ci spiega che la vita sull'isola è cara, che gli alberghi costano e che la genete di qui è molto interessata ai nostri soldi. Una frase che si rivelerà profetica.
Troviamo infatti un albergo per la modica cifra di 70 bolivares, circa 21 euro in due. Una stanza con due letti, mura sporche e bagno con il sciacquone scoperchiato, in bella vista.
Non molto soddisfatti, ci doniamo una meritata doccia e poi una cenetta frugale dopo aver girato un po' per trovare un posto che non cucinasse solo carne. La vita del vegetariano non è facile a certe latitudini. I paesi che stanno uscendo dalla povertà adorano la carne e la mettono da per tutto.
Ma i soldi mancano, i bancomat delle banche vicino a casa non ne vogliono sapere di funzionare. Lasciamo questa incombenza per il mattino dopo.
La situazione non migliora al mattino. Proviamo con tre banche, anche entrando e parlando - male, in uno spagnolo pieno di espressioni portoghesi - con i funzionari, di cui uno s'inventa che i nostri bancomat incontrano problemi in Venezuela, perchè ci sono leggi particolari per il ritiro di denaro da parte degli stranieri. Semplicemente non funzionano, cosa che ci porta ad una certa disperazione e ci costringe ad andare ad una casa di cambio, dove trasformare i dollari che mi ero portato dietro e i reais di Simona in moneta locale. E qui, o precisamente fuori, avviene l'incontro con due belle facce da galera che ci afferrano per le braccia e con un'espressione che non lascia dubbi, ci intimano di dar loro i soldi. Ci va bene che il denaro cambiato un po' ce lo siamo diviso e nascosto e quindi perdiamo solo 50 euro a testa, cifra non molto alta, ma sufficiente a rovinarci la giornata.
La sensazione dominanate è più di stupore che di paura o rabbia, ma ben presto la stanchezza del viaggio, la multa da pagare alla polizia brasiliana ed il mare che solo intravvediamo dietro condomini trasandati, si sommano in uno sconforto nervoso che inutilmente combattiamo con una sigaretta dietro l'altra.
Ma ormai siamo nell'isola, dopo 2000 km non possiamo e non dobbiamo ritornare subito indietro. Resistiamo alla voglia di mandare a fanculo tutti e di riprendere un autobus per il porto. Un cavolo di bancomat, uno di quelli che non funzionava, si riprende sotto i nostri occhi e almeno riusciamo a recuperare il denaro per rimanere altri due giorni. Certo, al danno si aggiunge la beffa del bancomat che torna a funzionare proprio dopo che siamo stati derubati!
Prendiamo un bus per una spiaggia di nome Pampatar, sperando che il mare riesca a mitigare le sensazioni spiacevoli che ci scivolano dentro. Arrivati, ci aggiriamo in cerca di un hotel economico, ma ce ne sono pochi e sono pieni. Intanto il mare si apre davanti a noi, con palme oblique sopra baracche di pescatori o chioschi con ristorantini, con cormorani e palazzi costruiti a ridosso della costa.
La sorte vuole che chiedendo alla gente del luogo se conoscevano delle pensioni, incontriamo un signore che una volta sentito quello che ci è successo, c'invita al suo chiosco, ci da due sdrai e dopo che ci siamo fatti un bagno, ci da un piatto di zuppa di pesce. Finalmente entro in contatto con la famosa ospitalità sud americana, che nei mesi a Manaus ho visto molto poco.
Dopo il tepore della zuppa, dopo un bagno in cui cercare di lavare il fastidio, la nostra fortuna assume le forme dell'ex moglie del signore che ci ha accolti, che c'invita ad andare a casa sua, per passare la notte.
Jerusa, una signora di circa 50 anni, originaria di Belém, un campionario di esperienza, di viaggi, persone e ovviamente problemi. Ex alcolista, ex cocainomane -alcol e coca sono le droghe più usate in America Latina -. danzatrice di samba negli anni '70 in un gruppo che viaggiò per l'intero continente, sposata con un francese conosciuto nell'isola di Margarita, da cui ha avuto una figlia che vive nell'Alta Savoia, un concentrato di storie e spunti su cui riflettere. Passiamo la notte a sentire i suoi racconti, a parlare di dipendenze, dell'instabile equilibrio che si conquista dopo mille cadute. Donna di mondo, che si apre a noi con estrema naturalità, con un linguaggio in cui spagnolo e portoghese si mischiano, in cui le parolacce aiutano a rilassare le trame. Le ore passano e così il sonno ci porta a chiudere gli occhi su di una giornata piena, dibattuta tra il bene ed il male.
Il giorno dopo, finalmente, ci concediamo un giorno di relax, spiaggia, bagno, pranzo sotto le palme, cercando di sgombrare la mente da rancori e distrazioni nocive. Il clima secco mi entusiasma. Dopo 4 mesi di umidità costante, in cui i vestiti a volte sanno di cane bagnato, vedere pochi alberi, la terra brulla e pareti senza muffa, mi riempie di meraviglia.
Ritornati a casa di Jerusa sistemiamo le nostre cose, perchè il mattino si riparte, si ritorna indietro. Scatto delle foto, al faro in lontananza, alle colline che mi ricordano quelle del sud Italia o dell'Andalusia e ad una specie di altare votivo, dove campeggia nel centro una figura che sembra la Madonna. Si tratta invece di Iemanjà, divinità della religione afro-brasiliana, dea del mare, celebrata a Salvador da Bahia il girono 2 di febbraio. Tipico esempio del sincretismo che anima la religiosità brasiliana, dove angeli, spiriti della cultura africana Yoruba e santi cattolici si mescolano in modo indissolubile.
Sveglia all'alba e si riprende il cammino di casa. Scorre il mare davanti a noi, ne approfitto per riempirmi d'immagini di isolette brulle, senza una pianta e dei riflessi del mare sulle pareti del traghetto. So che fino a luglio ci saranno solo fiumi e foresta.
Gli autobus si mettono in moto e ripercorrono la strada che porta in Brasile. Macchie di paesaggio oltre ai vetri della corriera, in cui s'intravvedono strade deserte, tubi per portare il petrolio, stazioni dei bus. Poco prima della frontiera, poco prima dell'alba, i militari venezuelani ci fanno scendere per perquisirci le valigie. Ancora addormentato mi metto in fila, mentre il sole è un tenuo bagliore dietro il posto di blocco. Svuoto il mio zaino ed osservo il militare più stanco di me cercare droga e armi tra le mie magliette e la mia macchina fotografica. Ovviamente non c'è nulla, anche se per sicurezza decide di mettersi in bocca un po' di sabbia che si trovava nella tasca in fondo del mio zaino, quella dove s'infila la tela per coprirlo in caso di pioggia. Dentro di me sorrido davanti all'ennesima dimostrazione di furbizia sbirresca.
Si riparte, mentre la savana comincia a riempirsi dei colori dell'alba.
Alla frontiera ci attende il pagamento di una multa, a cui cerchiamo di opporci ricordando al poliziotto federale che la nostra scheda di entrata e salita si trova a Manaus, a casa, che basterebbe darci la possibilità di presenterla alla polizia federale di là. Il tempo passa tra telefonate di richieste ai superiori. Un altro poliziotto vicino a noi, molto più gentile del suo collega deciso ad ogni costo di spillarci i soldi, ci racconta dei problemi che stanno accadendo lì, nello stato di Roraima, in seguito all'ampliamento della riserva indigena. I produttori di riso che si trovano sui terreni che devono essere ceduti agli indios sono sul piede di guerra, non vogliono lasciare i loro possedimenti. Lo stesso sindaco di un piccola cittadina, ricco possidente terriero, ha sparato a dieci indios che hanno invaso una sua proprietà. Dietro questi incidenti non ci sono solo i terreni dove si coltiva il riso, ma un metallo, il niobio, che serve per creare leghe super resistenti impiegate nella costruzione dei razzi spaziali, tra le sue varie applicazioni.
Niente, la multa sa' da pagà, peccato che la banca lì vicino non legga i nostri bancomat, così dobbiamo ritornare verso il Venezuela, ritirare bolivares, tornare in Brasile e cambiarli in reais al mercato nero, perchè ovviamente le banche non te li cambiano!
Stanchi, puzzolenti e sfiancati dalla burocrazia riprendiamo la strada di Manaus, non prima di effettuare un cambio a Boa Vista, dove il caso vuole che davanti a noi passi un corteo di macchine, che festeggia il ritorno da Brasilia del sindaco che ha sparato agli indios, considerato innocente ed acclamato dalla sua città.