giovedì 3 luglio 2008

Ultimi giorni d'Amazzonia


Ebbene si miei cari e mie care, tra una settimana esatta arriverà qui a Manaus, na selva de pedra, Aurélie e cominceremo un tour diretto verso il litorale del Nordest, dove si trovano località famose come Recife, Fortaleza e Salvador, dove i nostri connazionali mantengono alto il nome dell'Italia dedicandosi alla prostituzione minorile e all'esagerazione che gli permette uno stato che dal turismo ricava un sacco di soldi.
Noi cercheremo di visitare invece luoghi più ameni di una spiagga con baracchini che sparano samba a tutto volume o peggio ancora forrò, una musica tipica del nordest ora diffusasi in tutto il Brasile, che cantava di amori e vita quotidiana, e che ora è una triste unione di liscio e note contemporanee, incentrata sulla cachaça e sul sesso.
Non vi nascondo una certa allegria nel sapere di lasciare questa città. Voi tutti sapete quanto detesti le grandi concentrazioni di esseri umani e quindi di macchine, strade asfaltate, centri commerciali, industrie, banche, inquinamento, poliziotti, ecc. che sono diventate le città nell'epca contemporanea. E se già provavo questo disagio in Europa, potete immaginarlo qui, in un paese in pieno boom economico, che sta ripercorrendo le tristi orme della nostra Italia, che negli anni '60, in preda alla stessa frenesia di denaro e sviluppo senza regole, ha distrutto il volto delle sue città più belle, condannando la vivibilità sull'altare dell'abusivismo.
Per fortuna, e per non lamentarmi sempre - cosa che mi rendo conto è tristemente tipica di noi italiani, come se fossimo la nazione più sfigata del mondo, ok che abbiamo Berlusconi e quindi chi l'ha votato.. - uscendo di qui, con poche decine di minuti di barco, si accede ad una natura senza eguali, in cui la bellezza delle immagini è tale che ogni foto sembra un quadro.
Natura che ora è bagnata quotidianamente da un sole che non lascia spazio ad una sola nuvola, un sole che ti strappa un sorriso anche non volendo. Infatti, è da poche settimane iniziata l'estate anche qui. Così chiamano il periodo in cui le piogge si fanno scarse, in cui il caldo è veramente all'altezza della latitudine in cui mi trovo: l'equatore.
Gli alberi banane, di papaya e le palme da cocco risplendono d'un verde che quasi ferisce gli occhi e già sento nostalgia per questi frutti dal sapore indescrivibile e dalle proprietà miracolose. L'unica cosa che mi consola e scaccia la saudade è il pensiero rivolto ad un buon risotto, ad un buon formaggio di capra, insomma alla cucina italiana, ad una cultura alimentare ricca di secoli e della nostra piccola ma rigogliosa biodiversità. Pensate che qui, nella terra dove è nato il pomodoro, è difficile trovarne uno che si avvicini a quelli insipidi dei nostri supermercati. Se penso solo alle varietà che coltiva mio padre in 5 metri quadri d'orto, capisco perchè il mangiare da noi è un'arte. Ma del resto, stando qui, si capisce di essere in un continente ancora grezzo, che si sta plasmando tra tanti ed enormi problemi, non ultimo quello legato agli scarti del consumo vorace a cui di dedicano tutti quelli che escono dalla povertà.
Ed è forse questa la cosa che mi ha fatto più riflettere stando qui: il Brasile è un paese che sta uscendo dalla miseria, dalla condizione di paese del "terzo mondo" e che quindi sembra di fare un tuffo nel passato. Mi sembra di vivere nell'Italia della fine degli anni '50, in un paese che smetteva d'essere terra d'emigranti per diventare una potenza industriale. Ovvio, le differenze sono molte, a volte infinite. Ma non posso smettere di pensare a questo parallelo e non posso non provare un certo disagio di fronte alla grandissima maggioranza delle persone che non si preoccupano minimamente dell'acqua che sprecano, dei sacchetti di plastica che gettano per terra, delle pile usate scagliate nei fiumi. Come facevano e come fanno ancora i nostri genitori, convinti che il Progresso sia una cosa irrevocabile e soprattutto positiva.
Altra generazione la nostra, cresciuta con Cernobyl, i pesticidi oltre i livelli consentiti, il metanolo nel vino, il trasngenico e chi chop ed estrogeni. Ma qui tutto scorre, l'allegria della gente, la pazienza disarmante di fronte a cose che a noi farebbero tirare così tante bestemmie da far cadere la cupola di S.Pietro, vanificano i miei pensieri ecologisti. Forse dovrei sbattermene anch'io, lasciare che i ritmi di questo Sud del mondo mi facciano dimenticare le brutture del mondo, dissolvermi nel meticciato. Forse, ma rimane sempre forte il dubbio che questo non sia il vero progresso. Ma d'altra parte, qui capisco che non è facile guardare il mondo con la coscienza di un europeo, cercando di adattarvi tutto ciò che s'incontra. Anche se il mondo è ormai una cosa sola, e tra l'Amazzonia e l'Italia non c'è poi così tanta distanza.

lunedì 19 maggio 2008

Babylon by bus


Autobus, strade appena asfaltate in mezzo allla foresta, che lascia spazio alla savana e poi ad una terra brulla, quasi desertica.
La voglia di uscire dalla Città, da quella che chiamano selva de pedra (la foresta di pietra), la Manaus del traffico, delle industrie, dei mille commerci, della muffa che impregna le stanze e le vesti, il desiderio di combattere l'irrequietezza dell'animo con il senso del viaggio. Anche se di oltre 4000 Km.
Da qui, dal centro della foresta amazzonica il mondo sembra quasi irraggiungibile. Ed in parte è vero. Poche sono le strade che gli umani sono riusciti a costruire e a mantenere, evitando che la foresta se le mangiasse. Tutto si muove con le barche, dalle persone alle merci. Un movimento che deve seguire il corso dei fiumi, che se pur tenta d'imporsi con la forza del motore a scoppio e del diesel, deve rinunciare alla velocità e lasciarsi trasportare dalla corrente. Solo per arrivare a Belém, la capitale dello stato del Parà, che si trova vicino alla foce del Rio delle Amazzoni ci vogliono 4 giorni, e 7 per tornare, perchè si è controcorrente.
Ci sono gli arei è ovvio, ma sono cari. Per poter uscire da qui, per poter vedere, conoscere, annusare e sentire qualcosa di diverso, l'unica via è quello verso il nord, che passa per Boa Vista e da lì verso la frontiera con il Venezuela.
Il viaggio porta con sé nuovi orizzonti, nuove persone ma anche imprevisti e piccole disgrazie, che si legano in modo indissolubile. Così, non appena io e Simona (la ragazza che sta facendo la volontaria per la mia stessa Ong) ammiriamo la frontiera, con in bocca l'idea succulenta di incontrare non solo un nuovo paese, ma anche un'altra lingua - lo spagnolo - e altre culture, sentiamo il peso della burocrazia e del denaro saltarci addosso, per svegliarci, ricordandoci che dietro ogni passo c'è sempre una tassa da pagare. Per uscire dal Brasile dobbiamo passare dalla Polizia Federale per mostrare il passaporto, in quella che crediamo un'operazione di pochi secondi. I secondi diventano minuti, perchè ci siamo dimenticati a Manaus un fogliettino che ci hanno dati in aereo, ancora prima di atterrare a San Paolo, in cui dovevamo barrare delle caselle. Un pezzettino di carta in cui c'impegnavamo a non importare in Brasile piante o medicine particolari, che nessuno ha ovviamente controllato una volta atterrati. Un pezzo di carta che ci è costato 165,55 R$, ossia circa 63 euro, che avremmo pagato in seguito, una volta ritornati dal Venezuela.
E già si comincia bene, con il nervoso che solo la burocrazia ti sa dare, quell sensazione che uno stato te lo stia mettendo in culo, e che quel foglio di carta serva solo a prelevare denaro dagli ignari turisti, che considerandolo una sciocchezza, se lo dimenticano a casa!
Ma le ore di autobus, la foresta che si dirada fino a scomparire in una terra dove affiorano poche piante, persino dei cactus e l'idea di vedere il mare, scacciano guardie e ladri - che spesso sono la stessa cosa - e ridanno vigore al viaggio.
Molte le ore, più o meno 36 da Manaus a Puerto la Cruz, una cittadina che si trova sulla costa, da cui prendiamo un ferry per arrivare all'isola di Margaritta, rinnomata località turistica caraibica.
La visione di palme e acqua cristalline in cui pesci colorati nuotano beati lascia spazio alla più prosaica realtà di queste terre, abusivismo edilizio ed immondizia. Lo scarto del consumo vorace con cui stiamo rimpiendo pancia e testa, lascia dietro di sè resti di ogni tipo, che spesso non ci curiamo nemmeno di rimuovere alla vista, di occultare. Semplici gesti, una mano, un finestrino e la bottiglia di plastica o la lattina scivolano lungo la strada, per finire in mezzo alla polvere e agli arbusti secci, facendo compagnia ad altri loro simili.
Ma non si da tempo alla disperazione di venire a galla. Dal porto andiamo verso Porlamar, il centro dell'isola, in cerca di una sistemazione per la notte, di una doccia dopo due giorni di viaggio.
Con gli zaini in spalla e l'aurea di gringos che sprigioniamo, ci muoviamo con un furgone che funge da autobus e poi a piedi per stradine, in cui cerchiamo scorci di mare. Un ragazzo nero con un carrello ci ferma, ci parla in inglese, perchè non è venezuelano, viene da un'isola di cui non capisco il nome (che cercando su Google, scoprirò essere St.Lucia, vicino a Martinica) e con un anda alticcia ci spiega che la vita sull'isola è cara, che gli alberghi costano e che la genete di qui è molto interessata ai nostri soldi. Una frase che si rivelerà profetica.
Troviamo infatti un albergo per la modica cifra di 70 bolivares, circa 21 euro in due. Una stanza con due letti, mura sporche e bagno con il sciacquone scoperchiato, in bella vista.
Non molto soddisfatti, ci doniamo una meritata doccia e poi una cenetta frugale dopo aver girato un po' per trovare un posto che non cucinasse solo carne. La vita del vegetariano non è facile a certe latitudini. I paesi che stanno uscendo dalla povertà adorano la carne e la mettono da per tutto.
Ma i soldi mancano, i bancomat delle banche vicino a casa non ne vogliono sapere di funzionare. Lasciamo questa incombenza per il mattino dopo.
La situazione non migliora al mattino. Proviamo con tre banche, anche entrando e parlando - male, in uno spagnolo pieno di espressioni portoghesi - con i funzionari, di cui uno s'inventa che i nostri bancomat incontrano problemi in Venezuela, perchè ci sono leggi particolari per il ritiro di denaro da parte degli stranieri. Semplicemente non funzionano, cosa che ci porta ad una certa disperazione e ci costringe ad andare ad una casa di cambio, dove trasformare i dollari che mi ero portato dietro e i reais di Simona in moneta locale. E qui, o precisamente fuori, avviene l'incontro con due belle facce da galera che ci afferrano per le braccia e con un'espressione che non lascia dubbi, ci intimano di dar loro i soldi. Ci va bene che il denaro cambiato un po' ce lo siamo diviso e nascosto e quindi perdiamo solo 50 euro a testa, cifra non molto alta, ma sufficiente a rovinarci la giornata.
La sensazione dominanate è più di stupore che di paura o rabbia, ma ben presto la stanchezza del viaggio, la multa da pagare alla polizia brasiliana ed il mare che solo intravvediamo dietro condomini trasandati, si sommano in uno sconforto nervoso che inutilmente combattiamo con una sigaretta dietro l'altra.
Ma ormai siamo nell'isola, dopo 2000 km non possiamo e non dobbiamo ritornare subito indietro. Resistiamo alla voglia di mandare a fanculo tutti e di riprendere un autobus per il porto. Un cavolo di bancomat, uno di quelli che non funzionava, si riprende sotto i nostri occhi e almeno riusciamo a recuperare il denaro per rimanere altri due giorni. Certo, al danno si aggiunge la beffa del bancomat che torna a funzionare proprio dopo che siamo stati derubati!
Prendiamo un bus per una spiaggia di nome Pampatar, sperando che il mare riesca a mitigare le sensazioni spiacevoli che ci scivolano dentro. Arrivati, ci aggiriamo in cerca di un hotel economico, ma ce ne sono pochi e sono pieni. Intanto il mare si apre davanti a noi, con palme oblique sopra baracche di pescatori o chioschi con ristorantini, con cormorani e palazzi costruiti a ridosso della costa.
La sorte vuole che chiedendo alla gente del luogo se conoscevano delle pensioni, incontriamo un signore che una volta sentito quello che ci è successo, c'invita al suo chiosco, ci da due sdrai e dopo che ci siamo fatti un bagno, ci da un piatto di zuppa di pesce. Finalmente entro in contatto con la famosa ospitalità sud americana, che nei mesi a Manaus ho visto molto poco.
Dopo il tepore della zuppa, dopo un bagno in cui cercare di lavare il fastidio, la nostra fortuna assume le forme dell'ex moglie del signore che ci ha accolti, che c'invita ad andare a casa sua, per passare la notte.
Jerusa, una signora di circa 50 anni, originaria di Belém, un campionario di esperienza, di viaggi, persone e ovviamente problemi. Ex alcolista, ex cocainomane -alcol e coca sono le droghe più usate in America Latina -. danzatrice di samba negli anni '70 in un gruppo che viaggiò per l'intero continente, sposata con un francese conosciuto nell'isola di Margarita, da cui ha avuto una figlia che vive nell'Alta Savoia, un concentrato di storie e spunti su cui riflettere. Passiamo la notte a sentire i suoi racconti, a parlare di dipendenze, dell'instabile equilibrio che si conquista dopo mille cadute. Donna di mondo, che si apre a noi con estrema naturalità, con un linguaggio in cui spagnolo e portoghese si mischiano, in cui le parolacce aiutano a rilassare le trame. Le ore passano e così il sonno ci porta a chiudere gli occhi su di una giornata piena, dibattuta tra il bene ed il male.
Il giorno dopo, finalmente, ci concediamo un giorno di relax, spiaggia, bagno, pranzo sotto le palme, cercando di sgombrare la mente da rancori e distrazioni nocive. Il clima secco mi entusiasma. Dopo 4 mesi di umidità costante, in cui i vestiti a volte sanno di cane bagnato, vedere pochi alberi, la terra brulla e pareti senza muffa, mi riempie di meraviglia.
Ritornati a casa di Jerusa sistemiamo le nostre cose, perchè il mattino si riparte, si ritorna indietro. Scatto delle foto, al faro in lontananza, alle colline che mi ricordano quelle del sud Italia o dell'Andalusia e ad una specie di altare votivo, dove campeggia nel centro una figura che sembra la Madonna. Si tratta invece di Iemanjà, divinità della religione afro-brasiliana, dea del mare, celebrata a Salvador da Bahia il girono 2 di febbraio. Tipico esempio del sincretismo che anima la religiosità brasiliana, dove angeli, spiriti della cultura africana Yoruba e santi cattolici si mescolano in modo indissolubile.
Sveglia all'alba e si riprende il cammino di casa. Scorre il mare davanti a noi, ne approfitto per riempirmi d'immagini di isolette brulle, senza una pianta e dei riflessi del mare sulle pareti del traghetto. So che fino a luglio ci saranno solo fiumi e foresta.
Gli autobus si mettono in moto e ripercorrono la strada che porta in Brasile. Macchie di paesaggio oltre ai vetri della corriera, in cui s'intravvedono strade deserte, tubi per portare il petrolio, stazioni dei bus. Poco prima della frontiera, poco prima dell'alba, i militari venezuelani ci fanno scendere per perquisirci le valigie. Ancora addormentato mi metto in fila, mentre il sole è un tenuo bagliore dietro il posto di blocco. Svuoto il mio zaino ed osservo il militare più stanco di me cercare droga e armi tra le mie magliette e la mia macchina fotografica. Ovviamente non c'è nulla, anche se per sicurezza decide di mettersi in bocca un po' di sabbia che si trovava nella tasca in fondo del mio zaino, quella dove s'infila la tela per coprirlo in caso di pioggia. Dentro di me sorrido davanti all'ennesima dimostrazione di furbizia sbirresca.
Si riparte, mentre la savana comincia a riempirsi dei colori dell'alba.
Alla frontiera ci attende il pagamento di una multa, a cui cerchiamo di opporci ricordando al poliziotto federale che la nostra scheda di entrata e salita si trova a Manaus, a casa, che basterebbe darci la possibilità di presenterla alla polizia federale di là. Il tempo passa tra telefonate di richieste ai superiori. Un altro poliziotto vicino a noi, molto più gentile del suo collega deciso ad ogni costo di spillarci i soldi, ci racconta dei problemi che stanno accadendo lì, nello stato di Roraima, in seguito all'ampliamento della riserva indigena. I produttori di riso che si trovano sui terreni che devono essere ceduti agli indios sono sul piede di guerra, non vogliono lasciare i loro possedimenti. Lo stesso sindaco di un piccola cittadina, ricco possidente terriero, ha sparato a dieci indios che hanno invaso una sua proprietà. Dietro questi incidenti non ci sono solo i terreni dove si coltiva il riso, ma un metallo, il niobio, che serve per creare leghe super resistenti impiegate nella costruzione dei razzi spaziali, tra le sue varie applicazioni.
Niente, la multa sa' da pagà, peccato che la banca lì vicino non legga i nostri bancomat, così dobbiamo ritornare verso il Venezuela, ritirare bolivares, tornare in Brasile e cambiarli in reais al mercato nero, perchè ovviamente le banche non te li cambiano!
Stanchi, puzzolenti e sfiancati dalla burocrazia riprendiamo la strada di Manaus, non prima di effettuare un cambio a Boa Vista, dove il caso vuole che davanti a noi passi un corteo di macchine, che festeggia il ritorno da Brasilia del sindaco che ha sparato agli indios, considerato innocente ed acclamato dalla sua città.

mercoledì 30 aprile 2008

Tutto e niente



Ci sono dei giorni in cui non c'è molto da dire, però rimane forte la voglia di scrivere, per comunicare, anche solo per riempire lo spazio, anche se so che quello emotivo è a volte più grande della distanza che mi separa dall'Europa.
Ed in verità le cose da dire potrebbero essere infinite, solo la pioggia ed il sole, che da noi risultano quasi banali, qui sono elementi così estranei per le nostre sensibilità, che meriterebbero molte parole.
Le strade disconesse, i marciapiedi che ti obbligano a slalom improbabili, per evitare immondizia o buche, gli autobus che fanno sobbalzi in grado di spaccarti l'osso sacro, i supermercati che sono uguali in tutto il mondo, la Città in pieno sviluppo, gli indios che vivono sospesi tra le loro comunità in mezzo alla foresta o che studiano ingegneria florestale, la cooperazione che segue binari contorti che spesso non capisco, il denaro sopra ogni cosa, i ragazzi che fumano palline di pasta di coca in alberghi del centro, le birre scadenti, la musica neomelodica in un bar all'ora del tramonto ed un vorticare di eventi o semplicemente la routine e la sua noia.
Intanto guardo la palma agitata dal vento, fuori dalla biblioteca dove mi infilo per usare internet, di una delle mille università private, dove le ragazze entrano in gingheri, come fosse giorno di festa.
I contrasti fatti di immagini fugaci attraverso un finestrino, o da una barca. Il polo industriale più grande del nord dell'America Latina e le case di legno dei ribeirinhos, gli abitanti delle rive dei fiumi, mescolanza di portoghesi, indios, africani, che vivono di pesca e di allevamento. I giovani che si stordiscono di canne vagando nella notte, i barboni che sniffano colla o bevono cachaça di pessima qualità, per poi finire sdraiati su dei cartoni laceri su un marciapiede del centro.
La pioggia insistente che scorre insieme agli scariche delle case, lungo i marciapiedi, le barche che affondano perchè stracariche di passeggeri, i litigi senza fine tra clan indigeni urbanizzati, il centro deserto la domenica pomeriggio, la frutta dalle proprietà innumerevoli, la nostalgia delle cose banali, come può esserlo un pezzo di formaggio di capra, la musica melodica di Alceu Valença cantautore di Bahia.
Un tutto fatto di cose piccole e impercettibili, un niente enorme come può esserlo la foresta.

venerdì 25 aprile 2008

Le grand diable


Amazzonia nella mente di tutti richiama sempre alla deforestazione. Forse perchè è la foresta più grande del pianeta, forse perchè è da ormai molti anni sotto i riflettori, a differenza di altre aree boschive (Africa equatoriale e Sud-est asiatico).
Spesso si pensa che quest'immensità venga disboscata per la legna o, come capita di leggere in qualche rivista, dai piccoli agricoltori. Invece l'Amazzonia rischia di sparire per la carne. Solo il 3% della deforestazione è responsabilità dell'industria del legname, mentre il 60 % è colpa dell'allevamento di bovini! La foresta viene bruciata e tagliata per lasciare spazio ai pascoli che forniscono carne, che per l'80% è in gran parte destinata all'Europa (Italia compresa). In pratica, l'Amazzonia sta finendo nei nostri piatti, ce la stiamo letteralmente divorando!
Le nostre stalle non bastano più a sostenere le richieste di un mercato in forte espansione. Dopo la seconda guerra mondiale, il consumo di carne ha subito un'impennata. Quello che un tempo non poteva mai mancare nella tavola dei nobili o dei borghesi, che disdegnavano le verdure come cibo dei poveri (soffrendo tra l'altro della famosa gotta, un disturbo che porta alla paralisi o alla cancrena degli arti), ora è un diritto-dovere delle mensa di tutti. Nel 1961 il fabbisogno mondiale di carne era di 71 milioni di tonnellate, nel 2007 si stima sia arrivato a 284. Nel mondo in via di sviluppo è cresciuto del doppio, ed è raddoppiata in 20 anni. Si prevede che il consumo mondiale di carne raddoppierà nel 2050. Ma basta parlare con i propri genitori o con i propri nonni e constatare che la bistecca giornaliera (ma anche tutte quelle polpette, affettati, ragù, ecc.) 50 anni fa' erano fantascienza. Così ora, il 30% delle terre emerse non ricoperte dai ghiacci è adibito all'allevamento di circa 2 miliardi di bovini. Un'immensa mandria che inquina più di tutto il sistema mondiale dei trasporti (producendo un quinto dell'emissioni serra della Terra). Uno studio del 2007 fatto dall'Istituto nazionale di scienze dell'allevamento del Giappone ha stimato che per produrre un taglio di carne di manzo da un chilo, si consuma tanta energia quanto una vettura media europea che percorre 250 chilometri o come una lampadina di 100 watt accesa per 20 giorni di fila. Ed in più, sempre per questo chilo di carne, servono 9 chili di cereali, che verranno sottratti all'alimemtazione umana, per essere dati ad animali come le vacche il cui stomaco non è fatto per digerirli, ma che in compenso le farà diventare più grasse e più in svelta. Eventuali e probabili danni alla salute saranno poi curati a base di antibiotici, che finiranno nel nostro stomaco.
E tutto questo per non farci mai mancare la carne, il cui consumo giornaliero, è oltretutto dannoso per la salute, come hanno evidenziato varie ricerche scientifiche, la saggezza popolare (che i potenti snobbavano, per poi trovarsi grassi e paralitici) e le immagini della popolazione statunitense!
Ma poichè tutto è connesso, va anche detto che gli allevamenti di bestiame sono una delle cause della cacciata degli indios dalla loro terre d'origine, costretti a spostarsi altrove o in città, per fare posto ai latifondisti desiderosi di far pascolare le loro vacche.
La soluzione a tutto ciò non sarebbe complicata, anche se costringerebbe a qualche sacrificio, cosa che l'uomo post-moderno fa solo quando è minacciato di morte dal medico, ossia rinunciare alla carne (in tutte le sue forme e non come spesso mi capita di sentirmi chiedere, quando affermo di non mangiare carne: "con il prosciutto va bene?") qualche volta a settimana. In fondo, non esorto nessuno ad essere vegetariano. A differenza di molti carnivori che ho incontrato nella mia vita, che sono quasi fanatici della bistecca e che pensano che se non la mangi almeno 3 volte alla settima rischi di svenire e che mi trattano quasi come un demente, ho capito che il rispetto della abitudini altrui è importantissima, anche quando la si ritiene molto dannosa e che non si cambiano le idee di chi si ha vicino trattandolo come un ignorante.

(fonti:La Repubblica, 28 gennaio, 2008; www.wunimgfoundation.com/italiano/lifestyle/previsioni_del_tempo.htm)

venerdì 18 aprile 2008

Soldi


Dinheiro, plata, argent, money, soldi...insomma il vero motore del mondo, il fine tanto cercato dai filosofi antichi, il mezzo tanto desiderato per ottenere...altro denaro.
Un real, simbolo R$, vale circa 2,6 euro ed è la moneta brasiliana. Molti credono che il Brasile sia un paese povero, un tipico stato del Sud America dove un italiano può arrivare e comprarsi quasi tutto con un pugno di euro. Sono qui per smentirvi. Oltre al cocco gelato -un cocco tagliato sul momento, bello freddo, da cui aspirare il latte con una cannuccia -, o il costo delle bevande nei bar frequentati dai giovani medio borghesi, l'impatto con l'economia locale non è delle più felici, specie se si arriva armati dell'idea di poter prendere il taxi per percorrere mezza città con pochi spiccioli o di affittare una casa con piscina per lo stesso prezzo con cui si paga un posto in singola a Bologna o Venezia!
La benzina, il liquido biondo che fa impazzire il mondo, ha un prezzo di circa 1 euro, eppure il Brasile, grazie alla sua compagnia petrolifera di bandiera, la Petrobras, è quasi autosufficiente dal punto di vista energetico. Le macchine qui a Manaus non mancano, e non sono nemmeno vecchi catorci, tipo quelli che i paesi africani comprano di seconda o terza mano dall'Europa occidentale. Se da noi ci lamentiamo di quell'obrobrio ambientale che sono i SUV (Sport Utlity Vehicle), quelle specie di jipponi da città che inquinano per due utilitarie, qui è comune vedere dei pick-up con i quali affrontare la guerra nel Viet Nam in serenità, che non oso immaginare quanto carburante possano consumare.
E poi le televisioni al plasma, i pc, gli affitti, internet, l'olio d'oliva, che il più scarso, che non sa di oliva, costa come uno di alta qualità da noi, i vestiti, insomma tutta la carrellata di merci che riempiono negozi e case. Tutte carissime, che molto spesso qui si comprano parceladas, ossia a rate, che poi magari non si riescono ad estinguere ed allora bisogna riportare tutto indietro.
Mentre il salario minimo, fissato per legge è di 380 R$ (146 euro circa), mentre dietro l'ipermercato vicino a casa, dove si può trovare il gorgonzola a 40 euro al chilo o lo champagne da 50 a bottiglia, ci sono baracche di legno affacciate su un canale dove sono state riversati così tanti veleni che hanno impregnato il suolo fino a 9 metri di profondità.
America, liberalismo, ricchezza e povertà estrema, terra di conquista e di avidità. Non appena racconto cosa sto facendo qui: sviluppare alcuni prodotti che crescono nell'area indigena Sateré-Mawé, per incamminarli nel circuito equosolidale, molti si illuminano, tutti vogliono esportare per guadagnare. Va loro a spiegare che il denaro ricavato dalla vendita di questi prodotti è anche destinato a progetti sociali, come l'educazione, la raccolta differenziata di rifiuti - che nemmeno in terra indigena, nel mezzo della foresta, mancano - o il recupero delle medicine tradizionali. Qua, più che da noi, nostante viva nel Nordest Italia, il denaro è motivo per alzarsi al mattino, per sorridere e stringere mani.
In fondo qui è la frontiera del Brasile, un'enorme estensione di terra, libera, vuota -se si escludono milioni di alberi, piante, animali, fiumi, indigeni - piena di acqua, gas, materia infinita da sfruttare, da spedire via nave o via areo verso la borghesia di Rio o San Paolo, o verso i nostri negozi in Europa.
Penso a casa, alla vecchia Italia, dove racconti che le foreste quasi non ci sono più, dove un tempo, non troppo lontano, se qualcuno diceva che ad inizio '800 si poteva percorrere tutta la costa tirrenica da Ventimiglia (Liguria) a Reggio Calabria sotto l'ombra degli alberi, anche da noi la terra era meno una scatola da impacchettare. Uno dei primi presidenti democratici del Brasile, José Sarney, dopo la dittatura militare che durò dal 1964 al 1982, di fronte alle richieste dall'Europa di preservare a tutti i costi l'Amazzonia -che in gran parte si trova nel territorio brasiliano -, rispose che il Vecchio Mondo era il meno indicato a parlare, dato che aveva costruito le sue fortune proprio sul disboscamento.
Si taglia, si brucia, si gettano sostanze chimiche per far crescere di più o per far vivere di meno, si tratta ogni cosa come fosse totalmente dominabile, si guarda ogni cosa con la lente, solo per vedere dove sta la ricchezza o la parte da distruggere. E tutto per fare soldi, che ne faranno altri e così via, in un circolo vizioso senza fine, magari senza la possibilità di goderseli, perchè non si ha tempo, ed il tempo è denaro da fare, da non perdere. Una droga mortale il cui abuso è premiato con onorificienze e con cariche istituzionali. Manipoli di drogati che guidano il mondo come una macchina a folle corsa, mentre si accaniscono contro chi si droga per cercare un senso o per uscire dal senso dominante.
Sarebbe bello fermarsi un attimo e respirare profondamente, con le tasche vuote, senza debiti e crediti. E vivere di niente o di tutto, come un giardiniere, che un giorno mi disse che fuori da qui, lontani da Manaus, nell'interno, non hai bisogno di soldi: l'acqua c'è in abbondanza, ci sono pesci, ogni tipo di frutta, tanta terra, pioggia e sole. Sarebbe bello.

sabato 12 aprile 2008

Guaranà


"Il problema non è essere in molti su questo pianeta, ma essere molto stupidi."

Dopo delle note intimiste, in cui ho lasciato trasparire il mio animo, è ora di ritornare ad informare i lettori su questo mondo esotico, lettori che tra l'altro invito a lasciare dei commenti, se non altro per correggere le stupidaggini che posso dire o per intavolare un dibattito.
Il titolo di questo articolo non dovrebbe risuonare insolito, penso che alcuni abbiano già avuto modo di provare questo frutto che nell'Amazzonia e proprio dove mi trovo, ha la sua terra d'origine.
"Sateré-mawé éco ga'apypiat waraná mimotypoot sése" in lingua Sateré-Mawé significa: "santuario ecologico e culturale del guaranà del popolo Sateré-Mawé", un territtorio che indica tutta l'attuale area indigena riconosciuta nel 1982 dal governo federale brasiliano. In questa terra che ha circa l'estensione dell'Umbria (più o meno 780 mila ettari quadrati), si trova infatti l'unico banco genetico del guaranà al mondo. In pratica, qui e solo qui si può incontrare il guaranà nativo, tutto quello che cresce nella altre regioni del Brasile è frutto di incroci e manipolazioni dell'uomo.
La leggenda, che è un vero e proprio mito fondatoro di questa popolazione indigena, sostiene che il guaranà non è una semplice pianta che contiene questo o quel principio attivo. La tradizione vede in esso l'origine di un popolo, ma anche di una vera e propria medicina. C’era una volta una donna -racconto grossolanamente in pochi minuti una storia che meriterebbe una notte intera - che aveva due fratelli che non volevano che lei si sposasse. Perché lei guariva con le erbe e loro volevano che si prendesse cura solo di loro. Ma un serpentello le toccò una gamba e lei ne rimase incinta. I fratelli allora la espulsero dal suo stesso giardino, il giardino di Nosoquem. Quando ebbe 5 anni però, al bambino venne voglia di tornare per mangiare le castagne (che noi chiamiamo ‘noci del Brasile’) e gli zii ne approfittarono per farlo a pezzi. La madre, accorsa, raccolse i resti del bambino e gli disse (anche se era già morto): “E va bene, figlio mio. Sono stati i tuoi zii ad ordinare di ammazzarti. Volevano che tu restassi un povero disgraziato, ma non sarà così. Tu sarai la più grande forza della natura, tu farai il bene di tutti gli uomini, tu sarai grande, tu libererai gli uomini da certi mali e li curerai da altri”. Poi seppellì a parte, in due buche, gli occhi. Da un occhio nacque in seguito la pianta del falso guaranà, e dall’altro la pianta del guaranà autentico; dalla tomba in cui seppellì i resti del corpo, sorsero invece, nel giro di alcuni giorni, vari animali; per prima la scimmia caiarara (una scimmia sempre nervosa, agitata, irritabile, angosciata, che cammina in fila indiana e lascia il proprio cibo per andare a rubare quello degli altri membri del branco, antenata dell’uomo bianco). Per ultimo, infine, risorse il bambino: come capostipite di tutti gli indios Sateré-Mawé.
Il guaranà quando si dischiude, in marzo ed in ottobbre, assomiglia proprio ad un occhio. Un occhio che dalla foresta vergine abbraccia tutto il mondo.
Come vuole la leggenda, infatti, il guaranà (chiamato waranà dagli indios), non è fatto per rimanere nel folto della giungla. I Sateré hanno saputo addomesticare questa liana e da tempo remoto la coltivano nei campi in prossimità dei loro villaggi. Da secoli inoltre lo inviano oltre i confini del mondo per loro fisicamente raggiungibile (nel'700 lo esportavano addirittura oltre i confini del territorio brasiliano!).
Molte piante che i Sateré usavano, come quasi tutti gli indios amazzonici, sono state progressivamente ostracizzate o represse dall'autorità pubblica e dalle varie confessioni religiose che qui s'incontrano (i Sateré sono tutti cristiani: cattolici, battisti, avventisti o dell'Assembléia de Deus). L'ayahuasca, una bevanda ottenuta dall'infusione di una liana e di una foglia che meriterebbe un capitolo a parte e che ha delle forti proprietà allucinogene, il paricà, una polvere vegetale, anch'essa psicotropa, che viene soffiata per mezzo di un tubo nelle narici, la marijuana, introdotta in tempi più recenti, sono state tutte via via bandite. Al giorno d'oggi, gli sciamani, che in lingua interetnica si chiamano pajé, per i loro viaggi di cura rituale nel mondo delle ombre, si avvalgono quasi esclusivamente della cachaça (distillato della canna da zucchero) o dell'alcol etilico puro. Stessa sorte lo sta subendo anche l'uso quotidiano di centinaia di piante medicinali, che la nostra cultura basata sul rimedio chimico, che da un sollievo immediato, sta tentando di far scomparire.
Il fatto di essere apprezzato dai Gesuiti, ha salvato il guaranà se non dall'estinzione fisica, da quella culturale e ha permesso che il suo uso continuasse a far parte della tradizione Sateré. Quando un visitatore arriva in un villaggio è infatti usanza offrirgli il çapò, una bevanda a base di guaranà e acqua preparata dalle donne. Seduti sotto una capanna mi è capitato più volte di assistere alla sua preparazione: una donna prende una ciotola di legno con dell'acqua e con una pietra comincia a grattarci dentro un pezzo di bastone di guaranà. La ciotola è offerta ai presenti e deve far preferibilmente due giri, perchè altrimenti i propri figli nasceranno con un solo orecchio. Il sapore di questo caffè della foresta è leggermente amaro e con un piacevole sentore di affumicato. I semi di guaranà, infatti, dopo essere raccolti sono pestati dentro un grande mortaio, con l'aggiunta dell'acqua poi vengono trasformati in una sorta di massa molle che è lavorata per formare bastoni di mezzo chilo o un chilo. L'ultimo passaggio, e quello che ne dà il sapore caratteristico, è l'affumicazione su una struttura sospesa su delle braci di un legno aromatico, alimentate per circa tre mesi. In tal modo, oltre ad avere un sapore differente dalla semplice polvere ottenuta dalla macinazione dei semi tostati che si trova sul mercato, il guaranà può conservarsi per anni, al riparo dalle muffe.
Per la stragrande maggioranza dei brasiliani quanto ho appena descritto è puro esotismo, come per un europeo. Una sera mi è capitato di offrire un seme di guaranà ad un ragazzo con cui ero uscito e non sapeva cosa fosse. Questo succede qui nello stato di Amazonas, negli stati più a sud, dove la popolazione è più globalizzata e di origine europea, probabilmente igorano anche l'esistenza della liana del guaranà.
Infatti, il Brasile intero è un forte consumatore di quelli che qui si chiamano refrigerantes, ossia delle porcherie piene di zuccheri, gas e varie sostanze chimiche simili alle nostre cole. I più venduti sono quelli che contengono l'estratto di guaranà, prodotto in grandi stabilimenti in parte controllati dalla Pepsi. Questo guaranà di pessima qualità è ottenuto a partire da piante clonate, create in laboratorio, che si stanno progressivamente diffondendo anche qui nella terra d'origine e da piantagioni estensive nello stato di Salvador de Bahia. E' un guaranà questo che gode di tutti i difetti dell'agricoltura industrializzata: ricco di residui di diserbanti e fertilizzanti, impoverito geneticamente e trasformato in fretta, così da contenere tenori molto bassi di caffeina (il guaranà dei Sateré ha un tenore caffeinico tra il 4 ed il 5 %, mentre il caffé ne possiede tra l'1 e il 2%) e perdere molte altre piccole sostanze che ne garantiscono la digeribilità e gli effetti positivi sul corpo umano.
Il guaranà legìtimo, come si direbbe qui, è certo un forte stimolante nervoso, ma la sua caffeina è assimilata lentamente, grazie alla presenza delle fibre vegetali, che i processi artigianali non distruggono. Inoltre, questo frutto della foresta può essere usato contro la febbre e la diarrea, e agisce come depurativo e fortificante del sistema cardiaco. Ma qui è risaputo che il suo abuso ha portato più di un europeo o un giovane incosciente all'ospedale.
Come nel caso di altri doni della natura, anche il guaranà è diventato l'ennesimo principio attivo da ingurgitare per rendere di più, sia nel lavoro che nelle feste. Il nervosismo, l'insonnia e la tachicardia che ci chiede in cambio, potrebbero essere visti come una sorta di pena inflittaci dal bambino-guaranà, l'antenato dei Sateré, che ci sta ricordando la nostra superba stupidità, e forse anche la nostra discendenza da quella scimmia perennemente agitata.

mercoledì 9 aprile 2008

Silves


Silves. Isola di circa 3000 persone su un affluente del Rio Amazonas. Barche che scorrono, nuvole e riflessi di un sole potente sulle acque che si muovono. Il vento cerca di scompaginare il quaderno dove scrivo, portando sollievo e frammenti di ricordi.
Un anno di alberghi e pensioni, quest'anno lungo, che va da marzo dell'anno scorso a chissà quando.
Alberghi come sinonimi di movimento, di punti che congiungono i segmenti di questo mio moto di esplorazione. Partendo da Bologna, passando per la Toscana, arrivando in Francia del Nord per poi tornare a Bologna, e Milano, Parigi ed ora l'Amazzonia. Alberghi come contrari della stasi che ha bloccato il mio spirito per troppi anni. Venezia diventa quindi la laguna, la città di acqua ferma che simboleggia il mio agitarsi inquieto. Arenarsi in uno spazio, cercando di bloccare il tempo, come se si potesse collocare tutto al sicuro in bolle di vetro da guardare seduti su un divano, magari in posizione di estremo relax storditi da qualche spezia odorosa ed una bottiglia di nero oblio. E con il tempo bloccarsi per non affrontare le decisioni, le piccole battaglie di ogni giorno, le sconfitte, ma anche i piaceri dei nuovi sensi che si possono costruire con il confronto.
Eslporare nuovi territori è così un modo per conoscere nuovi spazi emotivi del proprio mondo interiore. Il pianeta che ci ospita diventa uno specchio in cui lasciarsi riformare. Perchè non esiste un luogo oggettivo, nemmeno nelle foto. La macchina si lascia modificare dalla luce, dalle angolazioni, ma soprattutto da chi la usa. Così i luoghi che incontriamo. Come sto qui, adesso, dipende da come sono ora, da cosa il mio corpo emana e la mia mente codifica in pensiero. E Silves o l'Amazzonia intera dipendono anh'essi dalle mie emozioni, dal mio desiderio di vivere o di lasciarmi vivere.
Sottili legami, fili leggerissimi tessuti tra il nostro cuore ed il mondo. Decidere di vivere comporta le sue responsabilità, non solo quella di conoscere, ma anche di rispettare. Perchè lasciandosi vivere si può sfilare il mondo come su un rullo scorrevole, come un automa del lunedì mattina, indifferenti. Il rispetto invece esige l'azione, perchè anche i mondi che ci ospitano non si lascino vivere addosso, come degli amanti scaduti, perchè il mondo sia nostro complice e alleato, un amante pieno di fascino ed intrigo, con cui lottare come si fa l'amore, ossia giocando.

mercoledì 2 aprile 2008

Tre mesi



Il tempo inghiotte il presente. Delle volte si fissa un numero su uno schermo o su un pezzo di carta e la cifra diventa un segno di cui non si può fare finta di niente. Come non posso sottrarmi dallo scrivere, dal raccontare, non fosse altro perchè qualcuno vorrà sapere di questo mondo, che a volte è pieno di colori, a volte bianco e nero come la scrittura. E' come sempre non è facile stabilire un punto, gettare un ancora che possa fermare le impressioni. A volte la scrittura chiede una sedentarietà che risulta difficile esaudire. Stare di fronte ad una macchina o ad un pezzo di carta da impressionare, mentre tutto ciò che si vuole afferrare e imprigionare nel foglio deriva dal movimento, fisico o della mente. Eppure il viaggio non si lascia ingabbiare, non riesce a conformarsi alla rigidità delle linee, delle parole. Come descrivere un viaggio di 4-5 ore in macchina lungo una strada a cui lati vive la foresta e che di colpo diventa sconnessa, rossa di ferro, in mezzo ad un bosco dove praticano un taglio sostenibile degli alberi? Come dipingere la notte di domenica, mentre fumavo una sigaretta sul molo di un'isoletta in un affluente del Rio Amazonas, mentre le barche andavano e venivano nel buio ed il vento sembrava attraversarmi? E l'acqua fangosa di un igapò - la parte della foresta che s'innonda durante la piena dei fiumi - e le migliaia di piante che la popolano, con quali parole rinchiuderle qui dentro?
Ed il viaggio è anche nel tempo, nei giorni che cambiano, a volte impercettibilmente, soprattutto qui, dove pare che le stagioni non ci siano, dove gli alberi sono sempre verdi e fa sempre caldo.
Ma quasi tre mesi sono passati e con essi migliaia di stati d'animo, nonostante il mio lavoro che langue, nonostante le poche persone giovani conosciute, in una certa solitudine che non mi dispiace. In fondo, dopo anni, dopo centinaia di comparse e di finzioni, ho anche voglia di vagabondare solo, nelle strade come nei pensieri, fissare il cielo e non chiedermi molto, facendo in modo che una notte scura o il sole già incandescente delle 9 allontanino ogni sciocchezza. Preferisco accontentarmi delle nuovole bianche di un mattino, che di mille discorsi che ruotano attorno a se stessi e non vanno da nessuna parte. Ogni tanto è bene concedersi della pace.

sabato 29 marzo 2008

Transgenia

La foresta amazzonica è un luogo che diecimila pagine non potrebbero contenere, non solo per la sua estensione o per la varietà delle sue piante, ma anche per la geografia sempre mutevole, a causa delle piene o dei periodi di secca e per le infinite storie ed eventi che la raccontano o la popolano.
Percorrendola, anche solo per pochi giorni, in compagnia di persone che la conoscono, o che la abitano, si viene presto circondati da un mondo che pare quasi a sé stante, un pianeta d'acqua, alberi, animali ed esseri umani che sembra non esistere al di fuori di esso.
Eppure i confini che vediamo ben tracciati nelle mappe sono solo linee immaginarie fatte apposta per essere superate. Le merci poi non hanno patria, si spostano con la leggerezza degli uccelli migratori o dei pollini, che attraversano gli oceani. Così, sedendosi attorno ad un tavolo di legno sotto una capanna indigena nel bel mezzo della foresta pluviale, può capitare di fare colazione con delle uove strapazzate fritte nell'olio di un legume proveniente dall'Asia.
La soia in Brasile è come la passata di pomodoro in Italia. Oltre a quelle pseudo bistecche per vegetariani frustrati, o al latte privo di colesterolo, la soia troneggia negli scaffali dei supermercati e nelle mensole di ogni casa sotto forma di olio, all'apparenza simile a quello di semi o di mais. Ma è apparenza appunto, perchè il legume principe della cultura alimentare cinese e giapponese è uno dei prodotti agricoli che più ha subito gli interessi delle biotecnologie.
Spesso è difficile districarsi nella selva - quella si veramente infinita - dell'informazione attuale, dove ai bollettini degli ecologisti si affiancono le notizie di autorevoli esperti che difendono a spada tratta le ricerche dei centri di ricerca sulle biotecnologie. Certo è, che quando le dicerie si trasformano in un etichetta ben visbile sulla bottiglia che avete tra le mani, un po' di dubbi vi possono venire. Soprattutto perchè gli organismi trangenici, a cui cioè sono stati aggiunti "pezzetti" di DNA estraneo alla specie, non sono l'opera di pie fondazioni per la lotta alla fame nel mondo, ma di imprese trasnazionali che vedono in questi nuovi prodotti delle possibilità enormi di guadagno.
Ci è stato più volte detto che piante più resistenti potranno essere coltivate anche in zone oggi desertiche o che una frutta con il vaccino per l'epatite ci permetterà di vivere più a lungo, ma spesso queste voci non si fermano a pensare perchè certe zone siano desertiche o perchè non basterebbe mangiare meglio per essere più sani.
In Brasile la soia trasgenica è entrata con il primo governo Lula, proprio quel presidente tanto invocato dalla sinistra italiana ed è una delle cause dirette della deforestazione dell'Amazzonia. Tra il 2003 ed il 2004 lo stato del Mato Grosso ha raggiunto livelli record di distruzione del suo patrimonio forestale e non a caso chi siede alla carica di governatore è un certo Blairo Maggi, che è il più grande produttore di soia qui in Brasile. E non sono solo gli alberi le vittimi sacrificali di quella che qui si chiama "frontiera agricola", ma gli stessi indios, che da una parte cucinano le uova con l'olio di soia e qualche migliaio di km più a sud, a causa della stessa soia, vedono minacciati i loro territori ancestrali. Gli Enawene Nawe, una tribù di circa 420 membri, sta da anni lottando perchè l'area del Rio Preto nel Mato Grosso venga ufficialmente riconosciuta come terra indigena, prima della sua totale distruzione ad opera dei latifondi di soia e dei diserbanti che inquinano le falde acquifere (Fonte: AceA, http://www.consumietici.it) . Infatti, la vera fortuna delle piante ogm, tra cui mais, colza e cotone, è il fatto di essere resistenti ai diserbanti, che distruggono le piante attorno a loro, lasciando le coltivazioni ancora in piedi. Certo, mi verrebbe da chiedere come possano poi essere queste piante sopravvissute, quale il loro contenuto per la salute umana, nonchè per l'ambiente. Ma tutto questo non è che la "logica conseguenza di uno sviluppo che privilegia lo stravolgimento e la commercializzazione dell'ambiente e di tutto ciò che contiene", come sostiene Marina Seveso, una scrittrice e giornalista italiana, nel suo libro Speriamo in bio. La grande rivoluzione pacifica contro i cibi che minacciano la nostra salute, Orme Editori, 2006.
E stare nel bel mezzo della foresta, anche se lontani da inquinamento elettromagnetico, sonoro e
luminoso, non ci garantisce di essere veramente fuori da queste logiche perverse. Spesso le logiche, anche se si fa fatica a chiamarle tali, sono più pericolose dei prodotti di cui si fanno portatrici, perchè si radicano fin su nel nostro cervello, peggio del colesterolo, e ci fanno sopportare tutto questo con indifferenza, se non con tacito appoggio. Ricordo ancora un caro amico, di simpatie marxiste, che qualche anno fa' affermò che gli ogm erano indispensabili per fermare la fame nel mondo. Eppure, se c'è chi muore o perchè non ha cibo o perchè il cibo è contaminato, questo non dipende dalla mancanza di terra coltivata o di piante adatte, ma dalla distribuzione delle terre e dall'organizzazione del lavoro (o magari della sua trasformazione in qualcosa di meno schiavista!), proprio una di quelle rivendicazione che fino a pochi decenni fa' era prerogativa di un marxista! Per questo, più della bottiglietta di soia in mano ad un indio, mi preoccupa la ottusa indifferenza che ci stanno seminando in testa, che ci fa credere in modo acritico a tutte le panzane che si raccontano in giro.
Come diceva un cantante morto prima della fine del secolo scorso:"...intellettuali d'oggi, idioti di domani, ridatemi il cervello che basta alle mie mani..."

giovedì 13 marzo 2008

La città e la foresta



1612475 abitanti ma c'è chi dice di più. Ogni giorno barche di legno colorato salgono il Rio Amazonas, portando in quella che un tempo era chiamata "cuore dell'Amazzonia" e "città della Foresta" decine di persone, ma c'è chi parla anche di centinaia. La gente arriva e vi si ferma, attratta dalla ricchezze che qui si producono, si accumulano e vanno via. Perchè qui non è il Terzo Mondo, o non lo è dappertutto.
Manaus è una delle città più ricche del Brasile, ed il Brasile è l'undicesima o decima potenza industriale del mondo. Solo che qua possono convivere a distanza di dieci metri i più grandi contrasti: le palafitte sui corsi d'acqua che s'innoltrano nella foresta, gli igarapé, e le villette con piscina protette dal filo spinato elettrificato; i centri commerciali con i prezzi che anche noi troveremmo assurdi ed un salario minimo di circa 150 euro al mese; la parola "sostenibile" sulla bocca di tutti i politici, gli scienziati e i ricercatori e l'immondizia sparsa ovunque, per terra, come fiori malati di questa nostra era; il più grande bacino idrografico del mondo e l'acqua che manca nelle case per più ore; gli indios scalzi che attraversano le strade del centro e le ragazze tirate con i vestiti alla moda che affollano la biblioteca dell'università dove vado. Ma più di tutto e qui più che altrove, il vero contrasto che si respira è la contraddizione maestra che si canta ormai da due secoli, da quando gli esseri umani sono sfuggiti in massa dalle campagne: la natura e la città, la foresta e la metropoli.
Stando qui si ha l'impressione di vivere in una qualsiasi città, di non essere in mezzo alla più grande foresta del mondo, se non per particolari, come la connessione internet instabile e lenta, o per i prezzi gonfiati dei prodotti alimentari e non solo, perchè devono essere importati da sud. Poi si prende una macchina o più spesso una barca, dato che le strade sono poche, e ci si scontra, affascinandosi e anche impaurendosi, con migliaia di alberi che svettano in tutte le forme e in tutte le varietà di verde su un terreno ondulato, su una terra rossa come la ruggine. Le strade che attraversano questo mondo sono fili d'asfalto, linee sbiadite che sottolineano la precarietà dell'essere umano, qui più evidente che altrove. Le buche, che obbligano a vistose sbandate, sono il frutto di questi alberi che vogliono riprendersi ciò che è loro.

Intanto il tempo scorre, le ore, i giorni, come le nuvole di questo cielo, che a volte mi sembra più grande di quello sotto cui ho sempre vissuto, come fosse uno specchio della terra sopra cui s'agita. Ed io mi sento come diviso, tra le luci, le macchine, le merci infinite e l'acqua lontana su cui si specchiano gli alberi ed una capanna di paglia...

venerdì 7 marzo 2008

Perchè?


Perchè mi trovo qui?
E' la domanda primordiale a cui cercherò di rispondere.
Ci sono dei motivi concreti, pragmatici e dei motivi altrettanto concreti, ma personali.
Essenzialmente ed ufficialmente sono qui perchè sto svolgendo il servizio civile all'estero. Forse non tutti voi sanno cos'è. Si tratta della possibilità di passare un certo periodo di tempo all'estero come volontario del servizio civile italiano, che un tempo era l'alternativa al servizio militare obbligatorio per noi maschietti e che ora, essendo stato sospeso quest'ultimo, è diventato completamente facoltativo e aperto anche alle donne. Ogni anno esce un bando, più o meno in maggio o giugno, e lì sono elencate tutte le associazioni o ong che possono inviare delle persone verso i paesi in cui stanno operando. Il loro numero varia attorno alle 500, dipendendo sostanzialmente dalle politiche del governo in carica: se ha destinato abbastanza fondi, se ha interessi a far partire subito le attività dei volontari, ecc. Infatti con il governo Berlusconi le cose si sono un po' complicate, soldi non sono stati stanziati e persone non sono partite nei tempi previsti.
Io non ho avuto tutte queste disavventure e ho iniziato il mio servizio il primo di ottobre dello scorso anno, presso un'associazione di Milano, Acea, di cui vi consiglio guardare il sito (www.consumietici.it). Certo il tutto è stato molto confuso, contraddistinto da una disorganizzazione a volte disarmente, ma non posso negare, che quando ho avuto la notizia che ero stato scelto per venire qui in Brasile ero più che felice. Ed è stato un caso, se non fosse che al caso, soprattutto in certi casi, non ci credo.
In luglio, dopo aver presentato la domanda per essere selezionato da una delle decine di associazioni presenti nel bando ed in particolare all'ARCI Lombardia, mi ero recato a Milano per un colloquio. Io avevo scelto un'associazione che faceva parte dell'ARCI e che aveva tra le sue destinazioni il Senegal, perchè nel bando si parlava di un progetto relativo al recupero delle conoscenze mediche tradizionali. Mi sembrava il luogo e l'occasione migliore per vivere tutte quelle nozioni che avevo letto qua e là, tutti quei riferimenti ad un mondo scomparso o in via di estinzione in cui un malato non è un insieme di organi da riparare come fosse una vettura, dove per guarire non si prende una pastiglia prima o dopo i pasti, ma dove l'essere umano è parte integrante di ciò che lo circonda, in cui la malattia è la rottura dell'equilibrio che deve esserci tra noi e ciò che è fuori da noi.
Dopo essere arrivato a Milano, in una giornata afosa, di quelle che ti fanno amare la pianura padana, dopo aver raggiunto, sudato e schifato dall'urbe finanziaria, il luogo dove si svolgevano i colloqui, ho capito che l'essere scelto per dovevo volevo andare sarebbe stato oltremodo difficile. Lo stanzone era pieno di gente che aveva già viaggiato di qua e di là, per tesi, per volontariato o per piacere, per paesi che per me erano cartoline dipinte dai racconti, dai romanzi, dalle voci delle persone che li avevano visitati, insomma delle fantasie esotiche, senza né capo né coda.
La sensazione di non poter reggere il confronto con chi aveva avuto la fortuna, i soldi dei genitori o la forza mentale di viaggiare nel mondo ignoto era forte. Ma soprattutto la gente era molta, la fila lunga e le mie forze poche, visto che mi ero svegliato all'alba per prendere il treno da Bologna.
Mentre attendevo il mio turno, un ragazzo, uno di quelli che gestiva la moltitudine lì accorsa, mi disse di provare con un'altra associazione che quel giorno faceva i colloqui. Io, senza ricordarmi quali fossero i progetti che la suddetta aveva, ci andai, dicendomi che era meglio tentare.
Il colloqui iniziò nel modo più inaspettato, non con le domande di rito che uno si aspetta: titoli di studio, lingue parlate, esperienze precedenti. Il presidente dell'associazione che poi mi avrebbe scelto, mi si rivolse con una di quelle domande che potrebbero mettere in difficoltà anche la persona più convinta: "cos'è l'autostima?".
Per un attimo il mio cervello si bloccò, poi senza sapere come, iniziai a parlare con una fluenza sufficiente per dare valore a quello che stavo dicendo ed immagino, visto l'esito positivo del colloquio, per convincere le persone che mi stavano esaminando.
Ma tutto questo fa parte dei motivi apparenti, ufficiali e pratici del mio essere qui. La verità più intima è che dopo la laurea, e in qualche modo anche prima, avevo deciso di starmene fuori dall'Italia per un po'. Ci avevo tentato con Barcelona, tra luglio e agosto del 2006, con la scusa di studiare lo spagnolo, con una borsa di studio della Regione Friuli e del Fondo Sociale Europeo, ma a parte fare festa e seguire i corsi di lingua al mattino non avevo fatto niente di meglio.
Finiti i corsi, tornai in Italia, con la convinzione che la metropoli catalana non faceva per me, un po' perchè non avevo saputo ambientarmi, un po' perchè le città grandi non mi piacciono, un po' perchè Barcelona sta perdendo il suo fascino di città aperta e tollerante, mi sembra infatti che stia diventando l'ennesima città turistizzata d'Europa, e perchè il catalano non mi piace per niente.
Così avevo passato l'autunno e l'inverno in un limbo fastidioso, sospeso tra le visite a Venezia e a Bologna, in una situazione post-studentesca che non mi apparteneva, e i tentativi di trovarmi un lavoro, almeno per passare il tempo e per non finire senza soldi.
Ma quello che volevo, non era trovarmi un lavoro in Italia, per poi lamentarmi di un paese che stava invecchiando precocemente e che mi sembrava aver dato il meglio di sé fino al 1977 con le ultime grandi contestazioni studentesche e giovanili. Certo, anche gli anni '80 erano stati più attivi socialmente e culturalmente di questi nostri anni, ma ho sempre pensato che fosse così perchè vi era coinvolto ancora lo spirito anticonformista delle due decadi precedenti, se non adirittura le stesse persone. Dopo l'energie si sono esaurite, le persone, i gruppi di persone si sono sempre più chiuse a riccio di fronte ad una società che aveva operato una piccola ma profonda sostituzione nei suoi ideali: comunismo, consumismo. Ed ora proliferano gli scazzi tra i collettivi, le derive da ghetto, in cui i militanti si chiudono tra 4 mura, in cui alla voglia di cambiare anche se stessi, si è sostituita la manifestazione in piazza, che il giorno dopo ritorna ad essere vuota.
Ci avevo provato a fare parte di questo mondo, ma ne ero rimasto deluso, non so se fosse colpa della situazione nel Triveneto, a dir poco ridicola o se fosse un problema più profondo, legato ad un momento storico in cui bisogna veramente darsi da fare per trovare altre strade, nuove e più coinvolgenti.
Volevo provare l'aria, magari frizzante, di un paese nuovo, dove i giovani della mia età non si lamentassero costantemente come se fossero dei vecchietti cui restano pochi anni di vita. Un paese con la possibilità di lavorare con una paga dignitosa e degli stimoli forti per guadagnarsela. Un paese giovane insomma.
Forse il Brasile ed in particolar modo l'Amazzonia non sono il tipo di posto che uno scieglierbbe per cercare tutto questo. Ma vale la pena uscire dai propri bloccchi, dai cortili recintati delle nostre piccole convinzioni, se non altro per osare a pensare a se stessi e al posto da dove veniamo in maniera differente.

mercoledì 27 febbraio 2008

Finalmente....


Dopo più di un mese e mezzo mi sono finalmente deciso di intraprendere la creaziond in un blog, un po' per non dover scrivere mille mail, un po' per fissare meglio tutte le idee e informazioni che mi girano nella testa, un po' per farvi sapere cosa mi sta succedendo e cosa succede in questo angolo di mondo, che quasi nessuno conosce, un po' per farvi vedere le foto che faccio e che con fatiche comparabili alla costruzione di una piramide tramite criceti, riesco ad allegare, un po' perchè mi piace scrivere e mi sembra il momento giusto per mettermi alla prova...non ho più scuse qui!

E' molto difficile trovare un punto da cui partire, un ancoraggio vagamente stabile da cui fa partire questo viaggio metaforico, questo viaggio che è anche reale, un movimento fisico e mentale attraverso una terra straniera non solo per me, europeo, ma anche per gli americani stessi. E si badi bene che per americani intendo tutti gli abitanti di questo continente, dai Canadesi, agli Argentini, dai Salvadoregni ai Jamaicani, dalle persone di origine anglosassone e spagnola, a quelli che chiamiamo indios e quelli che ci ricordano che questo continente è stato il più grande laboratorio schiavistico della storia umana. Purtroppo, questa non è una cosa per niente scontata, anche se all'apprenza ci sembra ovvia. Noi, noi europei, siamo soliti chiamare americani solo gli abitanti degli Sati Uniti d'America, un errore che persino i politici e i giornalisti più seri commettono. Un errore che non è una semplice dimenticanza. Persino qui, in terra americana, i brasiliani si rivolgono ai loro vicini del Nord con il termine americani.
Un illustre pensatore e giornalista uruguayano di nome Eduardo Galeano scrisse nel 1970 il suo libro più famoso e dirompente: "
Las venas abiertas de América Latina" (Le vene aperte dell'America Latina), che consiglio a tutti di reperire e leggere, in cui descrisse, in modo appassionato, la storia della conquista e dello sfruttamento del continente americano da parte delle potenze europee e degli Statunitensi poi. Quello che emerge è la storia di un'immensa colonia, di una terra di saccheggio indiscriminato, prima da parte degli europei (Spagnoli, Portoghesi, Inglesi, Francesi ed Olandesi) ed infine da parte di americani stessi. E quest'ultimi, come sostiene Galeano, non si limitarano a rubare le cose che avevano depredato tutti gli altri: uomini, donne, pietre, alberi, fiumi e animali, ma commisero un ulteriore crimine, all'apparenza leggero, come può esserlo una parola, eppure profondo, come può esserlo il significato che una parola incopora. Quelli che noi e quasi tutto il mondo chiama americani, ossia gli Statunitensi, rubarono la stessa parola americano e se ne servirono, in modo tale che ormai quando la pronunciamo intendiamo solo loro, le circa 300 milioni di persone che la abitano.
Questo preambolo ha lo scopo, se non di fissare un inizio, almeno di chiarire che le parole molto spesso non chiariscono affatto le cose, e che a volte sono delle trappole, anche mortali. Ma queste ci sono date per comunicare e quindi cercherò di trovare quelle giuste per descrivere la mia permanenza in questa terra, che come avrete intuito è una terra con una pesante eredità, ma anche giovane, soprattutto se pensiamo alla vecchia Europa. E quest'ultima, a ben pensarci, non è certo una terra di pace ed amore. Se guardiamo a tutta la storia che abbiamo studiato nelle scuole dell'obbligo ci appare chiaro che Europa è un continente di guerre continue, in un cui la pace è stata solo la breve pausa tra la firma di un trattato e la rottura di un altro. Non ci sorprenda troppo allora, che da essa siano usciti tutti quei soldati ed avventurieri puzzolenti - l'uomo e la donna europea nutrivano un vero e proprio disprezzo per l'igiene corporale, come per il corpo in genere - e avidi che hanno creato e modellato la terra su cui ora stanno poggiando i miei piedi.