sabato 29 marzo 2008

Transgenia

La foresta amazzonica è un luogo che diecimila pagine non potrebbero contenere, non solo per la sua estensione o per la varietà delle sue piante, ma anche per la geografia sempre mutevole, a causa delle piene o dei periodi di secca e per le infinite storie ed eventi che la raccontano o la popolano.
Percorrendola, anche solo per pochi giorni, in compagnia di persone che la conoscono, o che la abitano, si viene presto circondati da un mondo che pare quasi a sé stante, un pianeta d'acqua, alberi, animali ed esseri umani che sembra non esistere al di fuori di esso.
Eppure i confini che vediamo ben tracciati nelle mappe sono solo linee immaginarie fatte apposta per essere superate. Le merci poi non hanno patria, si spostano con la leggerezza degli uccelli migratori o dei pollini, che attraversano gli oceani. Così, sedendosi attorno ad un tavolo di legno sotto una capanna indigena nel bel mezzo della foresta pluviale, può capitare di fare colazione con delle uove strapazzate fritte nell'olio di un legume proveniente dall'Asia.
La soia in Brasile è come la passata di pomodoro in Italia. Oltre a quelle pseudo bistecche per vegetariani frustrati, o al latte privo di colesterolo, la soia troneggia negli scaffali dei supermercati e nelle mensole di ogni casa sotto forma di olio, all'apparenza simile a quello di semi o di mais. Ma è apparenza appunto, perchè il legume principe della cultura alimentare cinese e giapponese è uno dei prodotti agricoli che più ha subito gli interessi delle biotecnologie.
Spesso è difficile districarsi nella selva - quella si veramente infinita - dell'informazione attuale, dove ai bollettini degli ecologisti si affiancono le notizie di autorevoli esperti che difendono a spada tratta le ricerche dei centri di ricerca sulle biotecnologie. Certo è, che quando le dicerie si trasformano in un etichetta ben visbile sulla bottiglia che avete tra le mani, un po' di dubbi vi possono venire. Soprattutto perchè gli organismi trangenici, a cui cioè sono stati aggiunti "pezzetti" di DNA estraneo alla specie, non sono l'opera di pie fondazioni per la lotta alla fame nel mondo, ma di imprese trasnazionali che vedono in questi nuovi prodotti delle possibilità enormi di guadagno.
Ci è stato più volte detto che piante più resistenti potranno essere coltivate anche in zone oggi desertiche o che una frutta con il vaccino per l'epatite ci permetterà di vivere più a lungo, ma spesso queste voci non si fermano a pensare perchè certe zone siano desertiche o perchè non basterebbe mangiare meglio per essere più sani.
In Brasile la soia trasgenica è entrata con il primo governo Lula, proprio quel presidente tanto invocato dalla sinistra italiana ed è una delle cause dirette della deforestazione dell'Amazzonia. Tra il 2003 ed il 2004 lo stato del Mato Grosso ha raggiunto livelli record di distruzione del suo patrimonio forestale e non a caso chi siede alla carica di governatore è un certo Blairo Maggi, che è il più grande produttore di soia qui in Brasile. E non sono solo gli alberi le vittimi sacrificali di quella che qui si chiama "frontiera agricola", ma gli stessi indios, che da una parte cucinano le uova con l'olio di soia e qualche migliaio di km più a sud, a causa della stessa soia, vedono minacciati i loro territori ancestrali. Gli Enawene Nawe, una tribù di circa 420 membri, sta da anni lottando perchè l'area del Rio Preto nel Mato Grosso venga ufficialmente riconosciuta come terra indigena, prima della sua totale distruzione ad opera dei latifondi di soia e dei diserbanti che inquinano le falde acquifere (Fonte: AceA, http://www.consumietici.it) . Infatti, la vera fortuna delle piante ogm, tra cui mais, colza e cotone, è il fatto di essere resistenti ai diserbanti, che distruggono le piante attorno a loro, lasciando le coltivazioni ancora in piedi. Certo, mi verrebbe da chiedere come possano poi essere queste piante sopravvissute, quale il loro contenuto per la salute umana, nonchè per l'ambiente. Ma tutto questo non è che la "logica conseguenza di uno sviluppo che privilegia lo stravolgimento e la commercializzazione dell'ambiente e di tutto ciò che contiene", come sostiene Marina Seveso, una scrittrice e giornalista italiana, nel suo libro Speriamo in bio. La grande rivoluzione pacifica contro i cibi che minacciano la nostra salute, Orme Editori, 2006.
E stare nel bel mezzo della foresta, anche se lontani da inquinamento elettromagnetico, sonoro e
luminoso, non ci garantisce di essere veramente fuori da queste logiche perverse. Spesso le logiche, anche se si fa fatica a chiamarle tali, sono più pericolose dei prodotti di cui si fanno portatrici, perchè si radicano fin su nel nostro cervello, peggio del colesterolo, e ci fanno sopportare tutto questo con indifferenza, se non con tacito appoggio. Ricordo ancora un caro amico, di simpatie marxiste, che qualche anno fa' affermò che gli ogm erano indispensabili per fermare la fame nel mondo. Eppure, se c'è chi muore o perchè non ha cibo o perchè il cibo è contaminato, questo non dipende dalla mancanza di terra coltivata o di piante adatte, ma dalla distribuzione delle terre e dall'organizzazione del lavoro (o magari della sua trasformazione in qualcosa di meno schiavista!), proprio una di quelle rivendicazione che fino a pochi decenni fa' era prerogativa di un marxista! Per questo, più della bottiglietta di soia in mano ad un indio, mi preoccupa la ottusa indifferenza che ci stanno seminando in testa, che ci fa credere in modo acritico a tutte le panzane che si raccontano in giro.
Come diceva un cantante morto prima della fine del secolo scorso:"...intellettuali d'oggi, idioti di domani, ridatemi il cervello che basta alle mie mani..."

giovedì 13 marzo 2008

La città e la foresta



1612475 abitanti ma c'è chi dice di più. Ogni giorno barche di legno colorato salgono il Rio Amazonas, portando in quella che un tempo era chiamata "cuore dell'Amazzonia" e "città della Foresta" decine di persone, ma c'è chi parla anche di centinaia. La gente arriva e vi si ferma, attratta dalla ricchezze che qui si producono, si accumulano e vanno via. Perchè qui non è il Terzo Mondo, o non lo è dappertutto.
Manaus è una delle città più ricche del Brasile, ed il Brasile è l'undicesima o decima potenza industriale del mondo. Solo che qua possono convivere a distanza di dieci metri i più grandi contrasti: le palafitte sui corsi d'acqua che s'innoltrano nella foresta, gli igarapé, e le villette con piscina protette dal filo spinato elettrificato; i centri commerciali con i prezzi che anche noi troveremmo assurdi ed un salario minimo di circa 150 euro al mese; la parola "sostenibile" sulla bocca di tutti i politici, gli scienziati e i ricercatori e l'immondizia sparsa ovunque, per terra, come fiori malati di questa nostra era; il più grande bacino idrografico del mondo e l'acqua che manca nelle case per più ore; gli indios scalzi che attraversano le strade del centro e le ragazze tirate con i vestiti alla moda che affollano la biblioteca dell'università dove vado. Ma più di tutto e qui più che altrove, il vero contrasto che si respira è la contraddizione maestra che si canta ormai da due secoli, da quando gli esseri umani sono sfuggiti in massa dalle campagne: la natura e la città, la foresta e la metropoli.
Stando qui si ha l'impressione di vivere in una qualsiasi città, di non essere in mezzo alla più grande foresta del mondo, se non per particolari, come la connessione internet instabile e lenta, o per i prezzi gonfiati dei prodotti alimentari e non solo, perchè devono essere importati da sud. Poi si prende una macchina o più spesso una barca, dato che le strade sono poche, e ci si scontra, affascinandosi e anche impaurendosi, con migliaia di alberi che svettano in tutte le forme e in tutte le varietà di verde su un terreno ondulato, su una terra rossa come la ruggine. Le strade che attraversano questo mondo sono fili d'asfalto, linee sbiadite che sottolineano la precarietà dell'essere umano, qui più evidente che altrove. Le buche, che obbligano a vistose sbandate, sono il frutto di questi alberi che vogliono riprendersi ciò che è loro.

Intanto il tempo scorre, le ore, i giorni, come le nuvole di questo cielo, che a volte mi sembra più grande di quello sotto cui ho sempre vissuto, come fosse uno specchio della terra sopra cui s'agita. Ed io mi sento come diviso, tra le luci, le macchine, le merci infinite e l'acqua lontana su cui si specchiano gli alberi ed una capanna di paglia...

venerdì 7 marzo 2008

Perchè?


Perchè mi trovo qui?
E' la domanda primordiale a cui cercherò di rispondere.
Ci sono dei motivi concreti, pragmatici e dei motivi altrettanto concreti, ma personali.
Essenzialmente ed ufficialmente sono qui perchè sto svolgendo il servizio civile all'estero. Forse non tutti voi sanno cos'è. Si tratta della possibilità di passare un certo periodo di tempo all'estero come volontario del servizio civile italiano, che un tempo era l'alternativa al servizio militare obbligatorio per noi maschietti e che ora, essendo stato sospeso quest'ultimo, è diventato completamente facoltativo e aperto anche alle donne. Ogni anno esce un bando, più o meno in maggio o giugno, e lì sono elencate tutte le associazioni o ong che possono inviare delle persone verso i paesi in cui stanno operando. Il loro numero varia attorno alle 500, dipendendo sostanzialmente dalle politiche del governo in carica: se ha destinato abbastanza fondi, se ha interessi a far partire subito le attività dei volontari, ecc. Infatti con il governo Berlusconi le cose si sono un po' complicate, soldi non sono stati stanziati e persone non sono partite nei tempi previsti.
Io non ho avuto tutte queste disavventure e ho iniziato il mio servizio il primo di ottobre dello scorso anno, presso un'associazione di Milano, Acea, di cui vi consiglio guardare il sito (www.consumietici.it). Certo il tutto è stato molto confuso, contraddistinto da una disorganizzazione a volte disarmente, ma non posso negare, che quando ho avuto la notizia che ero stato scelto per venire qui in Brasile ero più che felice. Ed è stato un caso, se non fosse che al caso, soprattutto in certi casi, non ci credo.
In luglio, dopo aver presentato la domanda per essere selezionato da una delle decine di associazioni presenti nel bando ed in particolare all'ARCI Lombardia, mi ero recato a Milano per un colloquio. Io avevo scelto un'associazione che faceva parte dell'ARCI e che aveva tra le sue destinazioni il Senegal, perchè nel bando si parlava di un progetto relativo al recupero delle conoscenze mediche tradizionali. Mi sembrava il luogo e l'occasione migliore per vivere tutte quelle nozioni che avevo letto qua e là, tutti quei riferimenti ad un mondo scomparso o in via di estinzione in cui un malato non è un insieme di organi da riparare come fosse una vettura, dove per guarire non si prende una pastiglia prima o dopo i pasti, ma dove l'essere umano è parte integrante di ciò che lo circonda, in cui la malattia è la rottura dell'equilibrio che deve esserci tra noi e ciò che è fuori da noi.
Dopo essere arrivato a Milano, in una giornata afosa, di quelle che ti fanno amare la pianura padana, dopo aver raggiunto, sudato e schifato dall'urbe finanziaria, il luogo dove si svolgevano i colloqui, ho capito che l'essere scelto per dovevo volevo andare sarebbe stato oltremodo difficile. Lo stanzone era pieno di gente che aveva già viaggiato di qua e di là, per tesi, per volontariato o per piacere, per paesi che per me erano cartoline dipinte dai racconti, dai romanzi, dalle voci delle persone che li avevano visitati, insomma delle fantasie esotiche, senza né capo né coda.
La sensazione di non poter reggere il confronto con chi aveva avuto la fortuna, i soldi dei genitori o la forza mentale di viaggiare nel mondo ignoto era forte. Ma soprattutto la gente era molta, la fila lunga e le mie forze poche, visto che mi ero svegliato all'alba per prendere il treno da Bologna.
Mentre attendevo il mio turno, un ragazzo, uno di quelli che gestiva la moltitudine lì accorsa, mi disse di provare con un'altra associazione che quel giorno faceva i colloqui. Io, senza ricordarmi quali fossero i progetti che la suddetta aveva, ci andai, dicendomi che era meglio tentare.
Il colloqui iniziò nel modo più inaspettato, non con le domande di rito che uno si aspetta: titoli di studio, lingue parlate, esperienze precedenti. Il presidente dell'associazione che poi mi avrebbe scelto, mi si rivolse con una di quelle domande che potrebbero mettere in difficoltà anche la persona più convinta: "cos'è l'autostima?".
Per un attimo il mio cervello si bloccò, poi senza sapere come, iniziai a parlare con una fluenza sufficiente per dare valore a quello che stavo dicendo ed immagino, visto l'esito positivo del colloquio, per convincere le persone che mi stavano esaminando.
Ma tutto questo fa parte dei motivi apparenti, ufficiali e pratici del mio essere qui. La verità più intima è che dopo la laurea, e in qualche modo anche prima, avevo deciso di starmene fuori dall'Italia per un po'. Ci avevo tentato con Barcelona, tra luglio e agosto del 2006, con la scusa di studiare lo spagnolo, con una borsa di studio della Regione Friuli e del Fondo Sociale Europeo, ma a parte fare festa e seguire i corsi di lingua al mattino non avevo fatto niente di meglio.
Finiti i corsi, tornai in Italia, con la convinzione che la metropoli catalana non faceva per me, un po' perchè non avevo saputo ambientarmi, un po' perchè le città grandi non mi piacciono, un po' perchè Barcelona sta perdendo il suo fascino di città aperta e tollerante, mi sembra infatti che stia diventando l'ennesima città turistizzata d'Europa, e perchè il catalano non mi piace per niente.
Così avevo passato l'autunno e l'inverno in un limbo fastidioso, sospeso tra le visite a Venezia e a Bologna, in una situazione post-studentesca che non mi apparteneva, e i tentativi di trovarmi un lavoro, almeno per passare il tempo e per non finire senza soldi.
Ma quello che volevo, non era trovarmi un lavoro in Italia, per poi lamentarmi di un paese che stava invecchiando precocemente e che mi sembrava aver dato il meglio di sé fino al 1977 con le ultime grandi contestazioni studentesche e giovanili. Certo, anche gli anni '80 erano stati più attivi socialmente e culturalmente di questi nostri anni, ma ho sempre pensato che fosse così perchè vi era coinvolto ancora lo spirito anticonformista delle due decadi precedenti, se non adirittura le stesse persone. Dopo l'energie si sono esaurite, le persone, i gruppi di persone si sono sempre più chiuse a riccio di fronte ad una società che aveva operato una piccola ma profonda sostituzione nei suoi ideali: comunismo, consumismo. Ed ora proliferano gli scazzi tra i collettivi, le derive da ghetto, in cui i militanti si chiudono tra 4 mura, in cui alla voglia di cambiare anche se stessi, si è sostituita la manifestazione in piazza, che il giorno dopo ritorna ad essere vuota.
Ci avevo provato a fare parte di questo mondo, ma ne ero rimasto deluso, non so se fosse colpa della situazione nel Triveneto, a dir poco ridicola o se fosse un problema più profondo, legato ad un momento storico in cui bisogna veramente darsi da fare per trovare altre strade, nuove e più coinvolgenti.
Volevo provare l'aria, magari frizzante, di un paese nuovo, dove i giovani della mia età non si lamentassero costantemente come se fossero dei vecchietti cui restano pochi anni di vita. Un paese con la possibilità di lavorare con una paga dignitosa e degli stimoli forti per guadagnarsela. Un paese giovane insomma.
Forse il Brasile ed in particolar modo l'Amazzonia non sono il tipo di posto che uno scieglierbbe per cercare tutto questo. Ma vale la pena uscire dai propri bloccchi, dai cortili recintati delle nostre piccole convinzioni, se non altro per osare a pensare a se stessi e al posto da dove veniamo in maniera differente.